Alfredo Cospito, con il suo sciopero della fame, ha sollevato un problema, quello dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario e quello ad esso quasi sempre congiunto delle pene e dell’ergastolo ostativo
di Luigi Ferrajoli – professore emerito di Filosofia del diritto, Università di Roma Tre
Alfredo Cospito è una persona che, per lo sciopero della fame durato più di quattro mesi, rischia di morire. Per questo lo Stato dovrebbe fare di tutto per salvarlo. Per questo ho trovato penosa, non degna di un paese civile, la dichiarazione di Giorgia Meloni secondo cui il governo non intende togliere Cospito dall’isolamento perché “lo Stato non scende a patti con i terroristi”.
E’ una tesi priva di senso, che il ministro Nordio non ha avuto il coraggio di contraddire. Qui non c’è nessun patto da stipulare con nessuno. C’è solo una vita umana da salvare. Se una persona minaccia di gettarsi dalla cima del Colosseo, lo Stato, i vigili del fuoco non devono fare di tutto per salvarlo?
La forza dello Stato non si misura dalla sua troppo facile durezza, bensì, esattamente al contrario, dall’asimmetria che riesce a realizzare e ad esibire tra l’inciviltà del crimine e la civiltà del diritto, tra la brutalità della violenza delinquenziale e la mitezza delle pene.
In questo caso, la vera forza dello Stato avrebbe dovuto consistere nella sua capacità di salvare la vita di Cospito, anzitutto levandolo dal regime carcerario previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario.
Quanto alla pronuncia della Cassazione del 24 febbraio, si tratta chiaramente di un provvedimento politico: non si capisce infatti quali collegamenti illeciti con l’esterno – questa è l’unica ragione che giustifica il 41-bis – possa avere una persona in fin di vita e tenuta sotto costante sorveglianza.
Aggiungo che il fatto che questa penosa vicenda abbia determinato un aumento del consenso popolare alla destra è solo il segno di un ulteriore abbassamento del senso morale a livello di massa. Evidentemente, ciò che dalla destra di governo viene interpretato e, soprattutto, alimentato e legittimato è il sadismo punitivo, cioè la concezione della pena come vendetta, tanto più giusta quanto maggiori sono le sofferenze con essa inflitte.
Questa disumanità immorale ostentata dalle pubbliche istituzioni – la durezza per principio contro Cospito, l’unanime esaltazione dell’ergastolo ostativo, al pari delle sanzioni, fino alla confisca delle navi, contro chi salva troppe vite in mare – hanno un effetto contagioso. Valgono a promuovere l’immoralità, a costruire nemici immaginari, a legittimare gli istinti più egoistici e violenti.
Ma Cospito, con il suo sciopero della fame, ha sollevato un problema, quello dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario e, aggiungo, quello ad esso quasi sempre congiunto delle pene e dell’ergastolo ostativo.
Qual è la ragione che ha giustificato l’introduzione dell’art. 41-bis? E in che cosa il regime da esso introdotto, applicato alla data del 30 gennaio a 738 detenuti, dovrebbe consistere per essere legittimo?
Dovrebbe consistere nell’impedimento, del tutto giusto e opportuno, dei collegamenti con l’esterno di condannati per reati commessi da associazioni terroristiche o mafiose i quali, dall’interno del carcere, potrebbero continuare a dirigere o comunque ad avere contatti illeciti con le loro associazioni.
Di fatto, invece, il regime previsto dall’art. 41-bis – nelle prassi, ed anche a causa della sua frequente associazione al carcere ostativo e dei peggioramenti via via introdotti nella norma – è diventato il carcere duro, caratterizzato da vessazioni che nulla hanno a che vedere con quella giusta esigenza di sicurezza: come la riduzione del numero delle ore d’aria o la limitazione degli oggetti, come libri o quaderni o giornali, di cui egli possa disporre.
Domando: a cosa serve la limitazione dei libri o di altri oggetti innocui se non ad aumentare le sofferenze delle persone, a mortificarne la dignità e a realizzare una crudeltà fine a se stessa e una volontà di vendetta, l’una e l’altra simmetriche alla violenza criminale?
Ebbene, tutte queste inutili vessazioni sono illegittime. Le ovvie esigenze di sicurezza consistenti nel divieto di qualunque comunicazione con l’esterno non dovrebbero comportare condizioni di vita diverse da quelle degli altri detenuti. Al di là di queste esigenze, tutte le vessazioni non consistenti nell’impedimento di comunicazione con l’esterno altro non sono che i “trattamenti contrari al senso di umanità” vietati dell’art. 27 della Costituzione.
Ma sulle carceri occorre fare un discorso più di fondo. La situazione delle nostre istituzioni carcerarie è andata peggiorando di anno in anno, senza alcuna plausibile ragione.
Lo dicono i numeri, incredibili, delle statistiche. Negli ultimi trent’anni la criminalità, in Italia, è letteralmente crollata: gli omicidi, che nel 1991 furono 1938, sono oggi poco più di 300 ogni anno (309 nel 2022, 271 nel 2021). Riduzioni rilevanti si possono rilevare anche nel numero degli altri reati contro le persone e perfino in quello dei reati contro il patrimonio.
Contemporaneamente, tuttavia, la popolazione carceraria è quasi raddoppiata: i detenuti erano 31.053 il 30 giugno 1991 e sono oggi 56.158; gli ergastoli sono più che quadruplicati, passando dai 408 il 31 dicembre 1992 agli attuali 1859, due terzi dei quali – precisamente 1.267 –, aggravati quali “ergastoli ostativi”: ostativi nel senso che ostano all’applicazione dei benefici di pena previsti dall’ordinamento penitenziario del 1975 e dalla riforma Gozzini del 1986, cioè i permessi e le misure alternative alla detenzione, per la sola, perversa ragione che i detenuti si rifiutano di “collaborare con la giustizia”.
Questo regime “ostativo” a qualunque beneficio non riguarda solo gli ergastolani, ma tutti i detenuti – ben 9.529 – che, pur dopo la condanna, non “collaborino con la giustizia”: una condizione, questa collaborazione, contraria al principi di civiltà secondo cui nessuno è tenuto a incolpare se stesso o a collaborare con l’accusa, e per di più inesigibile per la maggior parte dei 9.529 detenuti da cui viene pretesa.
Cifre così altre – 9.529 pene di cui 1.267 ergastoli – non si spiegano se non con il carattere puramente burocratico, arbitrario e vessatorio del regime carcerario ostativo, solo o congiunto con il regime previsto dall’art. 41-bis. Che sono due regimi diversi, anche se di solito confusi nel dibattito pubblico.
Il regime ex 41-bis, se limitato al divieto di comunicazione con l’esterno, è un’ovvia misura di sicurezza che non dovrebbe alterare sostanzialmente la qualità della pena. Ben più grave e diffuso è il regime del carcere ostativo, deliberato, dice l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, per quei detenuti per gravi reati che non collaborino con la giustizia.
Nel caso dell’ergastolo, poi, questo carcere ostativo consiste in una morte civile, in un fine pene mai che, come ha stabilito la Corte costituzionale con le sentenze n. 114 del 1976 e n. 26 del 1999, è in contrasto con entrambi i requisiti della pena detentiva stabiliti dall’articolo 27, comma 2° della nostra Costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Infine un ultimo ordine di considerazioni di carattere politico. La civiltà di un paese si misura dalla mitezza delle pene, scrisse Montesquieu tre secoli fa (Lettres Persanes, [1721], LXXX, in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1951, I, p. 252).
Si misura, ripeto, dall’asimmetria tra la civiltà del diritto e l’inciviltà del crimine. Questi crudeli e insensati inasprimenti di pena segnalano perciò una pesante regressione della civiltà nel nostro paese.
Ma ancor più penosa è la regressione politica, culturale, intellettuale e morale espressa dall’unanime consenso ad essi prestato dall’intero ceto politico.
Le ragioni di questa regressione sono molteplici: l’abbassamento della qualità delle classi di governo; le incessanti campagne sulla sicurezza, dirette a terrorizzare l’opinione pubblica e a ottenere il consenso popolare a inutili inasprimenti di pena; la maggior durezza, soprattutto nei confronti della criminalità di strada, sia delle leggi che dei giudizi; la disumanità delle pene manifestata dai populismi onde ottenere il consenso degli elettori.
E’ una regressione profonda. Ricorderò solo un fatto che ne attesta la misura. Ancora negli anni Novanta la maggioranza dei parlamentari italiani era favorevole all’abolizione dell’ergastolo. Il 30 aprile 1998 il nostro Senato approvò, con 107 voti favorevoli, 51 contrari e 8 astenuti, in una seduta aperta da una bellissima relazione di Salvatore Senese, l’abolizione dell’ergastolo, su cui purtroppo mancò il voto definitivo della Camera. Un’altra Italia, un’altra classe di governo.
Oggi la sola critica non diciamo all’ergastolo, ma al modo in cui viene applicato il 41-bis o all’ergastolo ostativo, viene stigmatizzata come un segno di connivenza con la mafia o con il terrorismo. Oggi tutte le forze presenti in Parlamenti respingono come infamante l’accusa di essere a favore dell’abolizione non diciamo dell’ergastolo, ma perfino dell’ergastolo ostativo.
Un segno eloquente dei nostri tempi – nei quali la “legalità” sembra da tutti identificata con il carcere duro, costituzionalmente illegittimo – è stato offerto da uno scontro che per più giorni ha occupato le cronache politiche: l’aggressione del coordinatore del principale partito di governo a taluni esponenti dell’opposizione, insultati come possibili conniventi con il terrorismo o con la mafia, non già per aver criticato l’ergastolo e neppure l’ergastolo ostativo, ma solo per aver fatto visita al detenuto Cospito in fin di vita dopo 100 giorni di sciopero della fame per protesta contro il 41-bis.
E’ questo imbarbarimento del dibattito politico e, stando ai sondaggi, anche della società, che deve preoccuparci sul futuro della nostra democrazia.
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