Proprio le politiche commerciali dell’Unione e dei singoli paesi europei sono in parte responsabili di questi esodi di massa. I conflitti in Africa e Medio Oriente mettono in evidenza uno dei paradossi dell’Ue: prima vende armi a chi combatte, poi respinge i disperati che provano ad arrivare da noi. E le industrie della difesa ringraziano.
Ogni nuovo conflitto in medio oriente e Africa risveglia nell’Unione europea l’incubo di flussi migratori ingestibili, di milioni di persone in fuga dalla fame e dalla guerra pronte a travolgere il vecchio continente nonostante i muri, le reti e il filo spinato che ormai circondano l’Europa. Eppure proprio le politiche commerciali dell’Unione e dei singoli paesi europei sono in parte responsabili di questi esodi di massa. Continuando a vendere armi a stati coinvolti in teatri di guerra o che non rispettano le norme sulle limitazioni d’uso finale e di esportazione (End-user license agreement), i paesi europei alimentano guerre e conflitti nel mondo per poi spendere denaro pubblico per il rafforzamento delle frontiere esterne e per la gestione dell’immigrazione. Il tutto a vantaggio delle grandi aziende attive nel settore della difesa e della sicurezza.
Il commercio delle armi continua infatti a essere tra i più remunerativi al mondo, dopo aver raggiunto nel 2020 il valore di 2.000 miliardi trilioni di dollari, con un aumento del 2,6 per cento rispetto all’anno precedente. Ad averne tratto vantaggio è stata anche l’Unione europea: nel periodo 2015-2019, l’Ue è arrivata seconda nella classifica dei fornitori mondiali di armi, subito dopo gli Stati Uniti, con una quota di mercato pari al 26 per cento.
Un risultato che è stato possibile raggiungere grazie a Italia, Germania, Regno Unito, Francia e Spagna, che da sole valgono il 22 per cento dell’export europeo di armi. Capire che fine fa il materiale bellico e il know-how venduto dall’Ue ai paesi terzi, però, non è sempre così facile come calcolarne i guadagni. Nonostante l’esistenza di una Posizione comune europea e della firma da parte degli stati membri del Trattato sul commercio di armi, in molti casi le armi europee finiscono nelle mani di paesi coinvolti in conflitti, che non rispettano i diritti umani o che rivendono o cedono il materiale acquistato, in aperta violazione degli accordi siglati con i fornitori.
L’utilizzo delle armi prodotte in Europa contribuisce quindi al fenomeno delle migrazioni forzate e alla nascita di nuovi flussi migratori, a cui l’Ue risponde sempre più spesso con un rafforzamento dei confini esterni. Un esempio emblematico di questo paradosso è quello della Turchia, pagata dell’Ue per fermare i migranti provenienti principalmente dalla Siria e allo stesso tempo militarmente attiva nella guerra che sconvolge da dieci anni il paese arabo, grazie anche alle aziende italiane.
Le relazioni commerciali tra Italia e Turchia nel settore della difesa non sono certo una novità, ma l’ultimo report del think tank internazionale Transnational institute (Tni) riporta un dato interessante. L’elicottero T-129 ATAK sviluppato dalla Turchia con l’aiuto dell’azienda italiana Leonardo è stato infatti impiegato dall’esercito turco nelle operazioni Ramoscello d’ulivo e Sorgente di pace, entrambe dirette contro la popolazione del nord della Siria. I due interventi militari turchi hanno contribuito a destabilizzare l’area settentrionale del paese, costringendo migliaia di persone a cercare rifugio in altre zone della Siria o all’estero.
A legare la vendita di armi prodotte in Europa con i flussi migratori che coinvolgono il vecchio continente è anche il caso della Bulgaria. Come svelato in un report del Conflict armament research (Car), diverse armi prodotte dalle aziende bulgare e acquistate da Stati Uniti e Arabia Saudita sono state cedute in un secondo momento ad alcune milizie attive in Iraq e addestrate da Washington per combattere contro l’Isis. Il progetto Usa si è però rivelato fallimentare e gli armamenti sono finiti proprio nelle mani dei guerriglieri islamici.
Eppure sia Washington che Riad avevano dichiarato di essere gli utilizzatori finali del materiale acquistato e che lo avrebbero ceduto a terzi solo dietro autorizzazione dei paesi produttori, come previsto dall’End- user license agreement. Nessuno dei due ha mai interpellato la Bulgaria prima di inviare le armi acquistate da Sofia alle milizie da loro sostenute in Iraq. Alcuni di questi armamenti sono poi stati recuperati dalla polizia irachena a seguito della riconquista delle città di Ramadi e Mosul, dopo essere finiti nell’arsenale dell’Isis. Armi prodotte in Europa sono quindi state usate da un’organizzazione terroristica contro i civili, contribuendo anche allo spostamento forzato di migliaia di persone riversatesi in parte fuori dai confini iracheni. Di fronte a un aumento dei flussi migratori diretti verso il vecchio continente, l’Europa ha ben presto adottato una politica di rafforzamento e militarizzazione dei suoi confini esterni, garantendo un ulteriore ritorno economico alle aziende della difesa.
Il settore della sicurezza ha infatti assistito a una crescita significativa dei suoi profitti e si prevede che entro il 2025 il suo valore si attesterà tra i 65 e i 68 miliardi di dollari. D’altronde, basta guardare al bilancio pluriennale dell’Unione europea per capire quanto remunerativo sia il desiderio di sicurezza dell’Europa. Nel periodo 2014-2020, Bruxelles ha destinato 2,4 miliardi di euro al rafforzamento dei confini esterni all’interno del Fondo Ue per la sicurezza interna, che prevede tra le altre cose anche la gestione integrata delle frontiere. Nello stesso periodo, l’Ue ha destinato 3 miliardi al Fondo asilo, migrazione e integrazione (Amif) e altri 2 miliardi a Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera più volte accusata di violazione dei diritti umani.
Il bilancio pluriennale per il 2021-2027 non fa che confermare l’interesse dell’Unione verso la “securitizzazione” dei propri confini. Bruxelles ha infatti previsto una spesa di 25,7 miliardi di euro per la gestione dell’immigrazione e dei confini, mentre Frontex ha ottenuto un budget di 5,6 miliardi di euro, il più alto di sempre. A ciò si aggiungono anche i 7,9 miliardi di euro che saranno destinati nei prossimi sette anni al Fondo europeo di difesa (Edf), creato per coordinare e accrescere gli investimenti nazionali nella ricerca per la difesa e per aumentare l’interoperabilità tra le forze armate dei paesi membri.
Tra i soldi che l’Unione spende per far fronte ai flussi migratori vi sono anche i sei miliardi già versati alla Turchia e del cui rinnovo si è recentemente dibattuto in sede europea. Bruxelles è infatti disposta a fornire ulteriore denaro al governo turco affinché continui a tenere i migranti bloccati all’interno dei suoi confini, soprattutto ora che in Europa è tornato l’incubo di nuovi flussi migratori a seguito della caduta dell’Afghanistan in mano ai Talebani. La crescente militarizzazione dei confini e l’export europeo di materiale bellico non tengono però conto del rispetto di quei diritti umani che l’Ue promuove e difende. La vendita di armi a paesi coinvolti in conflitti o che violano gli accordi sull’utilizzo dei prodotti acquistati, come denunciato da più parti, contribuisce alla creazione di quei flussi migratori che l’Ue cerca poi di fermare militarizzando i propri confini, rendendo ancora più pericolo il viaggio di coloro che cercano di raggiungere l’Europa. Il nesso tra immigrazione e vendita di armi, però, sembra non sia stato ancora colto in Europa. Le valutazioni sull’export europeo di materiale bellico sono state affidate dal Consiglio al gruppo Coarm, ma raramente i suoi membri si confrontano con la commissione su immigrazione, frontiere e asilo o con quella per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) per avere un quadro più generale degli effetti di specifiche politiche commerciali dell’Ue. Eppure vendita di armi e immigrazione non sono che due facce della stessa medaglia e il rafforzamento dei confini si è dimostrato più volte una risposta inadeguata al bisogno di sicurezza europeo.
Futura D’Aprile
da Il Domani