Il Partito Popular fa arrestare membri delle istituzioni catalane. Risposta immediata delle piazze a Barcellona e nelle principali città spagnole. Oltre lo scontro interno alle classi dirigenti, le possibilità aperte dalle inedite dinamiche di mobilitazione dal basso.
Il Presidente Rajoy, a dispetto dell’apparenza e delle ultime allarmanti notizie, non è né un idiota, né un pazzo. Per lo meno, quanto sta succedendo in queste ore non ha a che fare con “colpi di testa” inaspettati, ma con una strategia politica vecchia di anni.
Non sono a Barcellona in queste ore così decisive e anche per chi si trova sul luogo è molto difficile capire cosa stia accadendo. Tuttavia, guardando indietro, è possibile identificare alcuni nodi importanti della complessa questione.
Quello del 1° ottobre non sarà il primo referendum sull’indipendenza catalana, così come ci sono già state negli anni passati delle manifestazioni di dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte delle istituzioni catalane. Tutti questi momenti, ovviamente, mancavano della ufficialità e del riconoscimento delle massime istituzioni giuridiche dello Stato spagnolo e hanno subìto minacce di ogni tipo da parte del potere politico. Nonostante ciò, il precedente referendum del 2014 vide andare alle urne circa il 35% dei catalani, in un clima di fortissima tensione e massiccia presenza delle forze dell’ordine, che però non realizzarono interventi significativi. Fu un’escalation di conflitto che non esplose mai.
Questa volta il Partido Popular ha chiaramente deciso di alzare l’asticella del conflitto, dapprima con le dichiarazioni incendiarie dei giorni scorsi e poi con le operazioni repressive di ieri mattina: l’arresto dei funzionari della Generalitat, il sequestro delle schede elettorali, il tentativo di incursione alla sede della CUP difesa da centinaia di attivisti.
Ma perché? Vogliono davvero imporsi, spaventare e chiudere la faccenda con la violenza, mettendo in mostra tutta la forza armata e repressiva dello Stato? Oppure stanno cercando di produrre la reazione, il caos, per recuperare poi il consenso come unici garanti dell’ordine? Questo, ancora, non è dato sapersi.
Ciò che possiamo percepire anche da fuori, è il crescere della simpatia, dell’appoggio “sinceramente democratico” alla causa indipendentista catalana, sotto i colpi dell’assurda repressione a cui è sottoposta.
Può essere questo un “effetto collaterale”, un elemento non considerato dal governo Rajoy? Di certo è l’elemento decisivo, dalla cui potenza – anche oltre “i confini” della Catalogna – dipende la riuscita o meno della scommessa del governo, l’isolamento o meno della Catalogna e del catalanismo nel contesto spagnolo. Ieri sera a Madrid e in altre 40 città spagnole ci sono state manifestazioni per la libertà di scelta e contro l’autoritarismo.
Non è possibile pensare che il governo spagnolo non abbia calcolato la crescita dell’appoggio all’indipendenza all’interno della stessa Catalogna. Su questo, anzi, deve essersi posata parte di quella strategia politica di medio periodo a cui accennavo sopra.
Queste immagini mostrano chiaramente come il fenomeno indipendentista, a discapito di altre forme di ridiscussione del rapporto Spagna-Catalogna, si sia trasformato anche a partire dalle scelte del governo centrale dopo la vittoria del Partido Popular nel 2012. Vittoria dovuta non tanto alla crescita dei voti dei conservatori, quanto al primo rovinoso crollo del PSOE, sfiduciato senza appello dalle piazze occupate del movimento 15M.
Da allora la storia accelera. Ben oltre i voti del PSOE, ciò che crolla è il consenso di buona parte della popolazione al Regime politico, identificabile con la costituzione monarchica del ’78. L’attore principale, se non l’unico, della “Transizione democratica spagnola”, cioè il Partito Socialista, perde il potere politico nazionale a causa diretta dell’astensione di quelle giovani generazioni precarie che si sono mobilitate in questi anni, e che poi costituiranno il nucleo di voto iniziale di Podemos. Qui si fonda il chiarissimo rapporto tra età e voto, evidenziato negli ultimi appuntamenti elettorali, costituito da tre fasce: i giovani sotto i 35 si astengono o votano Podemos o la sinistra; i “figli della transizione”, cioé quelli che hanno tra i 35 e i 55 anni, continuano a votare, sebbene in forte calo, il PSOE; sopra i 55-60 anni il voto è a maggioranza schiacciante per il tradizionale, e a tratti nostalgico, Partido Popular.
Nel 2012, dunque, la palla del governo nazionale passa a un Partito Popolare che mantiene diverse anime, tra le quali nasconde la diretta filiazione delle gerarchie franchiste, ma che non può esercitare mediazione sociale nel mezzo di una crisi economica forte, laddove nemmeno Zapatero era più riuscito a giocare questo ruolo. Eppure il PP riesce comunque a vincere, sostenuto da un elettorato vecchio e reazionario.
In questo contesto, la crescita dell’indipendentismo catalano può rivelarsi un’occasione. Da un lato, durante la crisi non vi è stata alcuna mediazione politica rispetto alla questione sociale, cioé con le imponenti mobilitazioni contro i tagli alla spesa pubblica e per il diritto all’abitare. Un fatto che ha intaccato perfino il consenso a destra del PP, ma è stato determinato ben oltre le sue volontà, cioé a livello europeo. Dall’altro, la mediazione politica col catalanismo, invece, sarebbe stata possibile eccome. A prescindere da come sia cresciuto così tanto l’indipendentismo in questi anni, e senza voler ascrivere tutte le responsabilità al PP (sarebbe irrispettoso nei confronti dei milioni di catalani che si mobilitano da anni), è certo, e oggi emerge sui quotidiani di tutto il mondo, che qualsiasi soluzione di compromesso minimo da parte del governo centrale avrebbe avuto qualche effetto positivo sulla “questione catalana”. O quantomeno, è evidente che con l’atteggiamento tenuto dal governo Rajoy le cose non potevano che peggiorare. Il PP ha sempre scelto, quando ha potuto, questo terreno come suo campo di battaglia politica. Cosa può far di meglio un governo autoritario che reprimere duramente un’istanza politica che afferma la propria differenza?
Al suo opposto simmetrico, il PP ha trovato una destra liberale catalana, anch’essa disastrata dagli scandali di corruzione, che ha tentato – con molti risultati – di approfittare a suo modo della situazione e di mostrarsi nemica giurata del PP con una furia degna delle lotte anti-coloniali. Così, in un vortice di radicalizzazione politica davvero inedito, la questione catalana è diventata a più riprese LA questione di Stato. In diverse occasioni e per molti mesi a partire dal 2012, questo tema è stato il più discusso nei media politici mainstream.
Tutto ciò, con il paradosso che i due complessi mediatici sono occupati da due sistemi politici (ed economici!) che hanno interessi opposti e dunque linguaggi (oltre che lingue) diversi. Dove nella TV catalana si dice “diritto a decidere”, nella TV spagnola viene tradotto “volontà di rompere la Spagna”.
In mezzo a questo confronto all’apparenza radicalissimo ma chiuso nella politica ufficiale, molti altri soggetti e sensibilità si sono attivate.
In primo luogo, i movimenti e le articolazioni sociali emerse dal 15M, che sono riuscite a imporsi con creatività e potenza massima spesso proprio in Catalogna, ma altrettanto spesso sono state oscurate dall’emergenza mediatica del conflitto di cui sopra.
In secondo luogo, il reale movimento di base, il diffuso catalanismo radicale – spesso, ma non solo, articolato attorno alla CUP – che si trova oscurato nel momento stesso in cui emerge come forza di sostegno agli stessi governi regionali di cui contesta le politiche. Tra questi due movimenti vi è stata senza dubbio una compenetrazione forte, negata solo dall’esasperazione del conflitto politico per mano del PP. In terzo luogo, l’inedita solidarietà con l’istanza indipendentista che è stata espressa fuori dalla Catalogna attraverso la difesa del “diritto a decidere attraverso un referendum legale”. Questa posizione, portata avanti con non poche difficoltà da Podemos e Barcelona En Comù, articola con una paradossale “moderazione politica” quel sentimento di rottura col Regime del ’78 che si è imposto nelle piazze di tutta la Spagna dal 15 maggio 2011. L’unico sentimento politico con cui, al di fuori della Catalogna, si possa produrre un’alternativa al perverso meccanismo per cui quando il PP attacca i catalani riesce a consolidare il proprio consenso nel resto degli elettori spagnoli.
Da queste tre istanze e dalla loro variabile articolazione dipenderà tanto l’evoluzione della questione e la portata del golpe in atto, quanto l’articolazione delle diverse ipotesi politiche in uno dei luoghi che, indipendente o meno, ha visto irrompere alcune tra le più avanzate esperienze di democrazia radicale e apertura nell’Europa degli ultimi anni.
ps: intanto il PSOE, vecchio custode del Regime formalmente ancora in vigore, tace.
Alberto Manconi
da DinamoPress