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Manganelli e impunità

Due docenti universitarie, qualificandosi, si interpongono, per evitare scontri, tra gli studenti che manifestano e le forze di polizia che li fronteggiano. Il risultato è che vengono anch’esse manganellate. Ma per il pubblico ministero, investito del conseguente procedimento per lesioni, non ci sono reati. Evidentemente l’opzione per l’impunità della polizia “a prescindere” è non solo di parte della politica ma anche di molti magistrati.

di Livio Pepino da Volere la Luna

Mentre la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza denuncia preoccupanti derive xenofobe e discriminatorie nelle forze dell’ordine del nostro Paese e il presidente della Repubblica chiama il capo della Polizia per esprimere solidarietà e indignazione per l’affronto subito, arrivano di fronte ai giudici alcuni dei pestaggi di polizia intervenuti nei mesi scorsi nei confronti di liceali, universitari e (anche) docenti . Ciò avviene – almeno a Torino – con una richiesta di totale archiviazione, secondo un copione che, per la Procura torinese, è da anni una regola.

Cominciamo dai fatti. Tutto accade il 5 dicembre dell’anno scorso davanti al Campus Einaudi. L’occasione è un provocatorio tentativo di volantinaggio da parte di uno sparuto gruppo di attivisti del Fuan (pratica sempre più frequente nel Paese governato dalla destra), contestato da studenti e studentesse antifascisti, con la polizia che interviene in forze per evitare il contatto tra i due gruppi. La contrapposizione si protrae per poco più di un’ora, con grida, proteste e (saltuario) lancio di oggetti. Il tutto senza incidenti sino a quando gli esponenti neofascisti, non essendo riusciti nel loro intento, decidono i lasciare il campo. A questo punto, quando è ormai venuta meno – ammesso che fosse esistita in precedenza – ogni esigenza di tutela dell’ordine pubblico, si verificano, incomprensibilmente, tre cariche di polizia (non è chiaro se per scelta preordinata o per iniziativa autonoma degli agenti rimasti momentaneamente privi di comando ). Sta di fatto che, nelle cariche, vengono colpite con manganellate una studentessa (con conseguenti lesioni di una certa consistenza) e due docenti di Giurisprudenza (Alessandra Algostino e Alice Cauduro) che, dopo essersi qualificate, si erano interposte tra gli agenti e gli studenti per evitare incidenti e che, a loro volta, riportano lesioni al capo e alle braccia .

A seguito della querela proposta dalle interessate si apre un procedimento per lesioni a carico di ignoti, nel quale l’audizione delle parti offese è delegato alle stesse forze di polizia a cui appartengono gli agenti e i funzionari il cui comportamento è oggetto di indagine (sic!). La (temporanea) conclusione del procedimento è una richiesta di archiviazione, sostenuta da 18 righe di reale motivazione (ché il resto – secondo una prassi tanto costante quanto poco commendevole – è null’altro che un lungo e acritico copia-incolla di due annotazioni di polizia). In esse – premesso che le lesioni sono state prodotte nel corso di cariche di alleggerimento spontanee intervenute dopo l’allontanamento del gruppo dei neofascisti e mentre gli operatori di polizia si stavano allontanando per salire sui mezzi – si sostiene che le cariche sono state effettuate in risposta a condotte aggressive dei manifestanti (comprese le tre querelanti) e che, conseguentemente, le azioni lesive degli agenti non sono punibili perché integranti un’ipotesi di uso legittimo delle armi che potrebbe essere degenerato, con riferimento alla sola studentessa, in un eccesso colposo del quale non è, comunque, possibile identificare l’autore.

La vicenda, seppur minore rispetto ad altre verificatesi negli ultimi tempi, è paradigmatica ed espressiva di una cultura tuttora presente in ampi settori della magistratura. Bastano, per descriverla, alcune domande. È normale che tutte le indagini siano state demandate alla stessa forza di polizia a cui appartengono gli agenti e i funzionari potenzialmente inquisiti e che l’analisi delle sequenze video dei fatti (fondamentale per la ricostruzione degli stessi e per la verifica della possibilità di identificare le persone in essi coinvolti) non sia stata affidata a consulenti terzi? È normale che, data la delicatezza della vicenda (riguardante i rapporti tra autorità e cittadini), il pubblico ministero non abbia proceduto personalmente neppure all’audizione delle parti offese e ad eventuali confronti (indispensabili prima di giungere alla apodittica conclusione che anche le querelanti erano incorse in comportamenti legittimanti la reazione degli agenti)? È corretto che, nella richiesta di archiviazione, si sia data per scontata la legittimità delle cariche “di alleggerimento” senza un rigo di motivazione sull’esistenza o meno di possibili alternative (essendo pacifico in giurisprudenza che, nella gestione dell’ordine pubblico, l’uso delle armi è l’extrema ratio e deve, comunque, rispondere al principio di proporzione)? E, ancora, è corretto affermare, nella stessa richiesta, che è impossibile identificare l’autore delle manganellate senza aver fatto alcun tentativo di individuarlo (per esempio con l’esame diretto dei funzionari e degli agenti coinvolti)?

Sono domande che portano lontano.

L’articolo 16 del codice di procedura penale del 1930 disponeva che «non si procede senza autorizzazione del Ministro della giustizia contro gli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o contro i militari in servizio di pubblica sicurezza, per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica». Per abolire tale privilegio (rectius, garanzia di impunità) della polizia dovette intervenire la Corte costituzionale che, con sentenza 18 giugno 1963, n. 94 ne dichiarò l’illegittimità. Ma i sostenitori dell’impunità a prescindere non si persero d’animo. Si arrivò così alla legge 22 maggio 1975 n. 152 (nota come “legge Reale”) i cui articoli 27 e 28 stabilirono che «qualora il procuratore della Repubblica abbia comunque notizia di reati commessi da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o da militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o d’altro mezzo di coazione fisica, informa nello stesso giorno il procuratore generale presso la corte d’appello e compie nel frattempo esclusivamente gli atti urgenti, relativi alla prova di reato, dei quali non è possibile il rinvio», con connessa possibilità del procuratore generale di procedere ad avocazione delle indagini. La norma non venne riprodotta nel codice di procedura penale del 1989 ma oggi una previsione del tutto simile è stata oggetto di due emendamenti all’articolo 15 del disegno di legge n. 1660, allora in discussione alla Camera, presentati dalla Lega (primi firmatari Iezzi e Ravetto), nei quali si prevedeva che «qualora il pubblico ministero riceva notizia» di reati commessi da forze dell’ordine in servizio di pubblica sicurezza e relative all’uso improprio «delle armi o di altro mezzo di coazione fisica», deve subito informare il procuratore generale presso la Corte d’appello che, a sua volta, «informa il comando del corpo o il capo dell’ufficio da cui dipendono i soggetti» affinché ne diano notizia agli indagati e all’Avvocatura dello Stato, unica autorizzata alle indagini (sic!).

L’opzione per l’impunità a prescindere degli operatori di polizia per gli atti compiuti in servizio con armi o altri mezzi di coazione fisica è, dunque, ricorrente nel nostro sistema, nonostante la chiara indicazione di contenuta nella sentenza n. 341/1994 della Corte costituzionale (dichiarativa dell’illegittimità del delitto di oltraggio per contrasto con il principio di proporzionalità della sanzione, nella parte in cui prevedeva la pena minima di sei mesi di reclusione) in cui si legge: «Questo unicum, generato dal codice penale del 1930, appare piuttosto come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell’epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima». Un’opzione ricorrente, si è detto: del legislatore, ma, come dimostra la richiesta di archiviazione in commento, anche di molti pubblici ministeri.

Resta l’auspicio che i giudici siano più rispettosi dei principi costituzionali di uguaglianza e di obbligatorietà dell’azione penale e delle chiare indicazioni della Corte costituzionale (almeno di quella di 30 anni fa…).

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