Media e giustizia, il virus populista che ha umiliato lo Stato di diritto
- marzo 30, 2021
- in misure repressive
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Da Mani Pulite a Rinascita-Scott, quell’intreccio diabolico tra informazione e procure.
Che la rivoluzione mangi i suoi figli lo diceva Charlotte Corday prima di pugnalare a morte “l’amico del popolo” Jean Paul Marat nella vasca da bagno. E se lo sarebbe dovuto ricordare anche Antonio Di Pietro, pugnalato alle spalle dallo stesso sistema mediatico che, 20 anni prima, lo aveva portato alla ribalta.
“Di Pietro facci sognare” titolava Sorrisi e Canzoni Tv nella primavera del 1992; la “tonino-mania” scuoteva l’Italia che aveva trovato il suo super eroe nell’ex poliziotto diventato il magistrato simbolo di Mani Pulite. Più nazional-popolare di Raffaella Carrà e di Pippo Baudo, di cui era una specie di propaggine giustizialista, anche lui con un certo senso per lo spettacolo ma con l’incazzatura facile.
Come nel Terrore giacobino i media si attivano per scovare i nemici del popolo, gli avvisi di garanzia – che dovrebbero garantire e invece offendono- sono frecce scagliate dai giornali e dai tg contro “i ladri” e i “corrotti”, sentenze di colpevolezza scritte dalle scrivanie delle redazioni. Fioccano gli arresti, le custodie cautelari, il tintinnio di manette accompagna sinistro gli interrogatori. “Tenerli in carcere è un modo per farli parlare” si vantano dalla procura milanese con il popolino che plaude sullo sfondo, vociando dagli schermi televisivi dei talk show; spuntano le arene di Santoro, i baffoni di Ruotolo inviato nelle piazze urlanti che chiedono pene esemplari per i politici ladroni nel nome dell’onestà (lo spettro grillino già incombeva in filigrana).
Quell’onda travolgente dà alla testa a tutti e tutti si assiepano sul pulpito dell’accusa, procuratori avengers e giornalisti aspiranti detective. Si forma il “grumo”, ossia quel garbuglio tra informazione e giustizia che da tre decenni stravolge i principi dello stato di diritto, fa a pezzi le garanzie della difesa e umilia il processo penale, derubricato a mero orpello. Quasi un genere letterario talmente è ormai radicato nell’immaginario collettivo, con tutto il suo fiorire di neologismi questurini, stralci sconnessi di intercettazioni, retorica vendicatrice. La giustizia penale diventa uno spettacolo per allattare i palinsesti, il brontolio fin lì dimesso degli italiani si era trasformato in un ringhio feroce, incitato a tambur battente proprio dal circo mediatico. Il pomeriggio in cui lanciarono le monetine contro Bettino Craxi tutti i sergenti della cronaca giudiziaria capirono che quello del capro espiatorio da stanare con torce e forconi era un format potente, che la caccia spasmodica ai disonesti appassiona le masse come una guerra civile, Risentimento piccolo borghese travestito da rabbia popolare va bene, ma intanto il venticello della calunnia si era fatto tsunami.
Ci vuole davvero molto poco per confezionare un servizio televisivo colpevolista; musiche da thriller hollywoodiano, tono di voce grave e caricato, la classica telefonata alla controparte che “rifiuta” di incontrare il reporter-segugio per far vedere che ha qualcosa da nascondere, e soprattutto un patchwork di notizie montate ad arte in cui si mischiano indagati e imputati, sentenze e sospetti, indagini e processi. Il giornalismo si dissolve in fiction ma che importa: così lievita lo share, si vendono le copie, si moltiplicano i click. Antonio Di Pietro è stato fatto fuori da un servizio di 20 minuti del programma Report intitolata Gli Insaziabili (sic) in cui venne accusato di possedere illegalmente 56 immobili tra case e rustici agricoli. Le accuse si rivelarono infondate ma il leader dell’Idv da quel giorno è un cadavere politico. La beffarda nemesi che colpisce proprio l’hidalgo di Tangentopoli non rende meno amaro il quadro generale, anzi mette in luce proprio il cinismo di un sistema tritatutto, pronto a gettare nel fango i vecchi eroi e sostituirli con nuovi interpreti.
La recente inchiesta di Riccardo Iacona dedicata all’indagine Rinascita Scott del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri fondata unicamente sugli atti messi a disposizione dalla procura stessa e dalla polizia giudiziaria è solo l’ultimo, e neanche il più brillante esempio, di questo genere letterario. Telecamere nascoste, intercettazioni decontestualizzate, avvocati difensori rappresentati come sodali dei boss, e la voce off della pubblica accusa a dipanare il filo degli eventi. Il tutto condito dalle cupe suggestioni di trame neomassoniche e di mostruosi intrecci tra le cosche e il mondo politico. Difficile per un giudice rimanere virgin mind di fronte a un simile fuoco di fila e quando il processo mediatico ha già consumato le sue sentenze.
Un riflesso pavloviano, percorre scattoso il nostro giornalismo, alimentato dagli abili sceneggiatori della magistratura inquirente che nomina le sue inchieste con titoli accattivanti, concepiti per diventare all’istante dei meme giornalistici. Come nell’inchiesta Mafia Capitale: dopo oltre 5 anni di udienze il tribunale ha stabilito che gli intrallazzi dei vari Buzzi e Carminati non erano mafia, ma tv e giornali hanno fatto una fatica immane a rimuovere quella succulenta etichetta. Poco male: si rifaranno con gli interessi nella prossima fiction giudiziaria.
Daniele Zaccaria
da il dubbio