L’11 ottobre 2013 in un naufragio al largo di Lampedusa persero la vita 286 persone di cui 60 bambini. Nove anni dopo il Tribunale di Roma, pur in una sentenza di prescrizione, ha accertato la responsabilità dei funzionari delle sale operative marittime che ignorarono le richieste di aiuto dei migranti in pericolo. Ma i responsabili veri di quella strage (e di molte altre) sono le politiche di respingimento e chi le sostiene
di Dario Belluccio
I mesi tra settembre e ottobre 2013 sono ricordati, da chi ha memoria, come particolarmente tragici nella storia del Mediterraneo: in pochi giorni furono forse un migliaio, certamente più di settecento, le persone che annegarono al largo di Lampedusa per fuggire all’inferno libico. Sono noti, in particolare, i naufragi del 3 ottobre e dell’11 ottobre 2013 (la maledetta “strage dei bambini”), la cui eco spinse anche le istituzioni italiane ad allestire un’operazione (al contempo militare e umanitaria) volta sia a garantire la salvaguardia delle vite umane in mare sia al contrasto dei traffici illegali di persone. Si trattava della missione Mare Nostrum, che avrà breve vita, sino al novembre dell’anno successivo, quando fu sostituita dalla meno efficace operazione Triton che, a differenza della prima, non vedeva i pattugliamenti andare oltre le 30 miglia dalle coste nazionali, a fronte dell’ampiezza della prima che si spingeva sino a lambire le coste dei Paesi di partenza dei migranti. Troppo costosa, Mare Nostrum, soprattutto scomoda politicamente, tanto è vero che le critiche mosse all’epoca (specie da Spagna e Grecia, oltre che dalle forze politiche più reazionarie di ogni Paese dell’UE) aprirono la strada a quegli esponenti politici, tanto volgari prima ancora che disinformati, che guardavano alle attività di salvataggio in mare quale “fattore di attrazione” delle partenze dalle coste del nord Africa, piuttosto che adempimento del principio (prima che giuridico, etico) di solidarietà tra persone.
Ora, a distanza di nove anni, il Tribunale di Roma ha concluso il primo grado del processo a carico di due importanti funzionari dello Stato italiano (il responsabile dell’epoca della sala operativa del Comando Generale delle Capitanerie di Porto, con compiti di coordinamento del soccorso in mare, Leopoldo Manna, e l’allora comandante della sala operativa della Squadra navale della Marina, Luca Licciardi) per il naufragio dell’11 ottobre 2013: se da un lato ha dichiarato la prescrizione dei reati, dall’altro non ha potuto evitare di affermare la piena responsabilità degli imputati nell’avere, tramite il rifiuto di compiere atti loro demandati dalla legge (ovvero fornire informazioni rilevanti e contribuire a inviare assetti di soccorso), determinato la morte di 286 persone, di cui almeno 60 bambini.
Le considerazioni di ordine giuridico in merito alla importante sentenza (peraltro ancora non passata in giudicato) sarebbero tante; ma qui vale la pena sottolineare aspetti di altra natura. Quella maledetta giornata sarà ricordata per l’incessante richiesta di aiuto da parte delle persone (quasi tutte siriane) partite dalla Libia alle autorità italiane prima e maltesi poi e per il disinteresse mostrato da queste per oltre cinque ore. L’intervento in salvataggio, infatti, arrivò solo a naufragio avvenuto e quando oramai troppi erano già privi di vita, certamente i più piccoli. Non è il primo caso del genere, perché le tensioni tra Italia e Malta riguardo alle proprie responsabilità nel Mare Mediterraneo sono risalenti nel tempo e nei decenni scorsi hanno reso tristemente famosi molti altri episodi.
Ciò che sconvolge gli animi, prima che le menti, è la circostanza in base alla quale due importanti ed esperti pubblici ufficiali, con ruoli diremo apicali nell’amministrazione pubblica, hanno scientemente ritenuto di potere soprassedere sulle richieste di aiuto di chi dichiarava di essere in pericolo di vita al fine (incredibilmente ritenuto primario) di dare seguito a una diatriba di ordine squisitamente politico tra Italia e Malta in merito a chi, tra i due Stati, aveva il dovere di intervenire nel salvataggio. Non lo fecero né l’uno né l’altro. Il capovolgimento dell’imbarcazione che ne è derivato, e che ha dato luogo al processo, è lo specchio del capovolgimento dei principi e dei valori che alberga ai vertici dell’Amministrazione pubblica. Ma sarebbe sbagliato additare i funzionari dello Stato come unici responsabili di quanto accaduto. Un esempio e alcune considerazioni possono rendere più chiaro il ragionamento.
Il 28 marzo 1997 la Katër i Radës, un’imbarcazione dismessa e ormai priva di bandiera salpata dal porto di Valona, è affondata al largo di Brindisi a seguito di “manovre cinematiche di interposizione”, attuate con tecniche militari codificate dalla NATO dal Comandante della corvetta Sibilla della Marina Militare italiana. La vicenda è nota come “tragedia del venerdì santo” o “tragedia di Otranto”: sono accertati 81 morti, altri 27 quelli formalmente dispersi e il comandante della corvetta della Marina Militare è condannato in sede penale. Tra questo evento e i fatti dell’11 ottobre 2013 la storia del Mediterraneo è costellata di altri naufragi che hanno causato migliaia di vittime. Molti altri ne sono seguiti, determinati da fatti (commissivi o omissivi) che sono conseguenza diretta o indiretta di precise scelte politiche, la più nota essendo, probabilmente, la firma dell’accordo tra Italia e Libia del 2 febbraio 2017, recentemente rinnovatosi automaticamente. Le ultime cronache parlano, invece, della volontà politica di criminalizzazione e contrasto alle organizzazioni umanitarie che effettuano attività di ricerca e soccorso in mare in mancanza di incisivi interventi in tale senso da parte degli Stati costieri e della Unione europea – volontà da cui derivano comportamenti ostruzionistici di alcuni funzionari della Pubblica Amministrazione verso queste attività di salvataggio.
Possiamo allora dirci che i responsabili delle tragedie sono persone di pochi scrupoli, funzionari restii alle regole, che hanno male interpretato il senso di accordi politici, che li hanno solo applicati o, al contrario, non vi hanno dato adeguato seguito; e possiamo consolarci sapendo che in alcuni rari casi, come quelli su indicati, costoro vengono individuati e che la giustizia segue il suo corso facendo collimare o almeno avvicinare la verità giudiziaria a quella storica. Dunque possiamo dire che bisogna fare di più per individuare le “mele marce” e privarle dei ruoli che hanno perché in questo caso la giustizia trionferà. Oppure….
Oppure possiamo interrogarci sulle responsabilità di ordine politico, se non culturale, andando oltre il lavoro di giudici e avvocati, in modo da provare a dare una risposta politica e dunque preventiva che eviti le tragedie e la possibilità di farle nascere. Forse solo in questo modo anche una sentenza che guarda a fatti di nove anni fa potrà restituirci il senso della sua estrema attualità; solo attraverso questa operazione si potrà immaginare di contrastare le pulsioni più retrive che, oggi in maniera più esplicita che in passato, sono dichiarate in ambiente parlamentare e governativo; soprattutto, solo in questo modo potremmo contribuire a realizzare la prima volontà dei sopravvissuti dei naufragi, le madri, i padri, i figli, i parenti e gli amici ancora in vita, i quali non hanno mai cercato vendetta, ma verità, non sono mai stati legati al passato, ma alla speranza di non dovere vedere negli occhi altrui il dolore indicibile che essi stessi hanno provato per le perdite subite e che nessuna decisione giudiziale potrà anche solo ridurre.
E allora dobbiamo riconoscere che la tragedia del venerdì santo del 1997 al largo di Otranto è causata dal “blocco navale” stabilito da un accordo tra Italia e Albania entrato in vigore solo tre giorni prima del suo verificarsi; che la sentenza del Tribunale di Roma sul naufragio dell’ottobre 2013 fotografa la decennale battaglia, diplomatica e “navale”, che Italia e Malta conducono da decenni sulla pelle dei naufraghi e dei migranti; che i morti del Mediterraneo centrale sono conseguenza dell’accordo tra Italia e Libia del febbraio 2017 recentemente rinnovato. E possiamo anche parlare della rotta tra Marocco e Spagna, di quella tra Turchia e Grecia, tra Libano e Cipro e andare oltre il mare per guardare ai muri fisici, oltre che giuridici, costruiti in tutta Europa come in America e alle morti e sofferenze di cui sono causa. E provare a dare una lettura d’insieme a un fenomeno sociale che in fondo è unico.
Oppure, ancor di più, possiamo “volere la luna”: affermare chiaramente che le vittime sono tali non in conseguenza della volontà di arricchimento di trafficanti di esseri umani (che criminali certamente sono), ma a causa della esistenza di frontiere e della impossibilità di attraversarle se non sfidando una politica mortifera e possiamo rivendicare la libertà di circolazione delle persone, tutte, non solo la nostra.
Il luogo di ragionamento, allora, non può essere solo l’aula di un tribunale, perché è addirittura sin troppo facile (sia permesso usare questa espressione da chi è consapevole, ovviamente, di quanto i processi in questo ambito siano rari e difficilissimi, oltre che fondamentali) additare solamente chi dà seguito a una direttiva, esplicita o meno che sia, di tipo politico. E, al limite, è addirittura consolatorio sperare nella sola assunzione o dichiarazione di responsabilità di tali esecutori. Il luogo di riflessione vera deve essere invece quello della discussione politica e, a parere di chi scrive, dovrebbe prima circoscrivere i principali termini della questione e chiedersi se si tratta di disquisire di un tema solo “umanitario” ovvero se la necessità di dare priorità al controllo delle frontiere e al contrasto dell’immigrazione illegale – e non valorizzare, invece, la libertà di movimento delle persone – abbia la sua ragione di fondo nella pervicace volontà di creare in Europa e in Italia un esercito di persone precarie, prive di diritti, ricattabili nel mercato del lavoro, così come nel discorso pubblico che strumentalizza la questione migratoria per comprimere anche altri diritti sociali dei nativi.
Forse, assumendo questa ottica, arriveremo a riconoscere che le politiche di respingimento e di (non)governo delle migrazioni, pur variamente attuate nel corso del tempo, non solo non sono lo strumento utile a contrastare i movimenti migratori o a regolare i flussi di migranti (che al limite cambiano direzione, come l’acqua che scorre, ma certamente non si fermano), ma sono uno strumento scientemente voluto e funzionale alla creazione di sempre più profonde disparità sociali. È un obiettivo impervio quello che auspichiamo, che ci costringe anche a tenere conto che il vociare di differenze tra l’attuale e i precedenti governi è davvero di pura apparenza o, al limite, di diversa attuazione di un similare disegno. Ma è un obiettivo affascinante.
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