Meloni, la retorica della nazione e il neoliberismo autoritario
- dicembre 20, 2022
- in misure repressive, riflessioni
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La destra al governo usa un’idea arcaica e razzista di nazione per tutelare i più forti favorendo l’ingiustizia tributaria e l’evasione fiscale, sostenendo le regioni già ricche, propugnando l’autoritarismo nei confronti dei giovani, operando per la privatizzazione della sanità, osteggiando i diritti civili vecchi e nuovi e molto altro ancora. Politiche vecchie e contraddittorie a fronte delle quali, peraltro, non c’è un’opposizione credibile
di Francesco Pallante
L’ambizione – o meglio: l’arroganza – con cui l’estrema destra italiana sta interpretando la propria ascesa al potere, come fosse la tanto attesa occasione d’imprimere una svolta epocale alla cultura politica del Paese, stride platealmente con i risultati conseguiti e con le politiche sinora messe in atto. Dall’elezione ai vertici del Parlamento di figure d’imbarazzante modestia, perché gravemente carenti sul piano della consistenza politica (alla Camera) o dell’adeguatezza istituzionale (al Senato), alla formazione della compagine governativa meno autorevole della storia repubblicana, a partire dalla stessa presidente del Consiglio, tutto lascia intendere che la più rilevante risorsa su cui Giorgia Meloni ha sinora potuto e può ancora oggi fare affidamento è l’inconsistenza politica di alleati e avversari (inconsistenza che sarà a breve acuita dall’elezione di Stefano Bonaccini a segretario del Pd).
Anche sul piano strettamente culturale, la pochezza dell’estrema destra di governo trova conferma: nelle non poche occasioni d’incontro e discussione organizzate in questi mesi da Fratelli d’Italia – da ultimo, il decennale del partito – i temi continuano a essere quelli triti e ritriti da decenni: il futurismo, D’Annunzio, le foibe, il vittimismo per i “martiri” della Resistenza e degli anni Settanta, il politicamente corretto, le radici cristiane, il conformismo dominante… Nessuna capacità d’interpretare il presente: anzi, la negazione delle sue più clamorose urgenze, come quelle climatica, economica, sociale, nucleare. E nessuna capacità di proporre una visione di futuro, avendo quale unica prospettiva di riferimento la riproposizione acritica delle politiche neoliberiste responsabili di averci condotto al disastro attuale.
Al centro di tutto, è il recupero dell’idea di nazione come valore fondante la nuova fase, evidente sin dal discorso sulla fiducia pronunciato da Giorgia Meloni nell’aula di Montecitorio il 25 ottobre scorso: declinato come sostantivo o aggettivo, il riferimento alla «nazione» ricorre nelle parole della neopresidente del Consiglio ben 32 volte («libertà» compare 16 volte, «uguaglianza» una soltanto), sebbene in maniera spesso inappropriata, perché erroneamente sovrapposta ai concetti di popolo e di Stato. Diversamente dal popolo, elemento costitutivo dello Stato che fa riferimento a coloro che condividono la medesima cittadinanza sulla base delle leggi vigenti (e, dunque, richiama a una comunanza artificiale), la nazione rinvia, infatti, alla condivisione di elementi “naturali” quali gli antenati, l’etnia, la tradizione, i costumi, la lingua, la religione, alimentando in tal modo una contrapposizione per cui, mentre la cittadinanza si può anche ottenere dopo la nascita (sebbene in Italia la legge cerchi d’impedirlo in vari modi), la nazionalità o la sia ha “nel sangue” o non la si può acquisire. È la distorsione antidemocratica per cui facciamo votare gli italiani residenti all’estero, che non dovranno obbedire alle leggi approvate dal Parlamento, e non gli stranieri residenti in Italia, che a quelle leggi dovranno obbedire.
Il richiamo alla nazione è, d’altronde, un vecchio espediente retorico reazionario, volto, fin dall’Ottocento, ad attribuire portata generale a comportamenti di parte, in modo, in ultima istanza, da trasformare gli avversari del governo in nemici della patria. Poteva funzionare, e in parte ha funzionato, quando le aspirazioni nazionali risorgimentali ancora non avevano trovato piena soddisfazione e, soprattutto, quando era necessario costruire una sfera d’inclusione politica ideale che compensasse l’esclusione politica reale di gran parte della popolazione in forza del voto censitario: in tal modo, anche chi non aveva accesso al suffragio elettorale poteva comunque riconoscersi nelle istituzioni di governo perché espressione della comune appartenenza nazionale. Sappiamo bene cosa tutto ciò abbia prodotto: l’autoritarismo vigliacco à la Bava Beccaris, sul fronte interno, e, sul fronte esterno, il nazionalismo più ottuso e violento, quello che portò l’Italia a macchiarsi indelebilmente dei crimini coloniali e della carneficina delle guerre mondiali. Quegli stessi autoritarismo e nazionalismo che furono, a loro volta, componenti essenziali della nefasta miscela da cui scaturì il fascismo.
Non è certo un caso, dunque, che, con la vittoria della Resistenza, la Costituzione repubblicana abbia voluto circoscrivere il concetto di nazione sul piano strettamente culturale, depurandolo da tutte le componenti identitarie ed escludenti che, tradizionalmente, l’avevano connotato. Ecco così – come argomentato tante volte da Tomaso Montanari – che, nei principi costituzionali fondamentali, il riferimento alla nazione ricorre nell’articolo 9, quello dedicato alla ricerca scientifica, alla cultura, al patrimonio storico e artistico, al paesaggio: vale a dire a elementi artificiali, non naturali, per definizione esposti all’apporto plurale di tutti coloro che, nel tempo lungo della storia, si sono avvicendati a vivere in Italia e, in futuro, continueranno a farlo. Un’idea di nazione, insomma, aperta e rivolta futuro, radicalmente contrapposta all’idea chiusa e rivolta al passato che sino alla Costituente era stata dominante; e che ora la destra radicale di Fratelli d’Italia vorrebbe tornare a riproporci.
Con una clamorosa contraddizione, peraltro. Se è vero, infatti, che già il fascismo aveva costruito la propria retorica identitaria intorno alla nazione, è altresì vero che, nel farlo, il regime mussoliniano si era effettivamente posto il problema di dar vita a una qualche forma di comunanza tra i connazionali. Mussolini non fece anche cose buone: fece politiche strumentalmente rivolte a contenere la questione sociale, in modo da consentire la prosecuzione dello sfruttamento delle classi lavoratrici da parte dei ceti dominanti riducendo il rischio di rotture rivoluzionarie. Di qui, una qualche attenzione alle condizioni dei diseredati. Tutt’altro l’atteggiamento del governo Meloni, che mentre, a parole, si autoproclama difensore della nazione intera, nei fatti opera a smaccato beneficio soltanto delle parti “amiche”, favorendo l’ingiustizia tributaria, ammiccando all’evasione fiscale, sostenendo le regioni già ricche, dimenticando la sicurezza sui luoghi di lavoro, aumentando le occasioni di sfruttamento, propugnando l’autoritarismo nei confronti dei più giovani, contrapponendo studenti meritevoli e immeritevoli, operando per la privatizzazione della sanità, annullando le politiche per la casa, reprimendo l’immigrazione con la negazione di ogni umanitarismo, osteggiando i diritti civili vecchi (la libertà di associazione) e nuovi (la libertà di autodeterminazione della propria sfera sessuale e vitale).
Se ci fosse un’opposizione minimamente credibile, un governo prigioniero di simili contraddizioni avrebbe i giorni contati; con l’opposizione che abbiamo, c’è da temere che durerà invece a lungo.
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