Memorandum con la Libia: così l’Italia viola norme nazionali ed internazionali
Rinnovo del memorandum tra Italia e Libia che prevede, tra le altre cose, l’intervento della guardia costiera libica per fermare in mare e riportare sulla terraferma, nei centri di detenzione libici i migranti imbarcati che tentano di raggiungere le coste italiane. I giuristi lanciano l’allarme sulla violazione della sovranità del Parlamento, mentre le decine di organizzazioni che fanno parte del Tavolo Asilo denunciano le violazioni dei diritti umani che il memorandum si porta con sé. E così lo Stato italiano potrebbe finire imputato davanti alla Corte penale internazionale
C’è un cortocircuito politico alla base della questione del rinnovo del Memorandum d’intesa “sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana”. In base al quale le forze politiche al Governo che si richiamano all’ideologia della sovranità popolare proprio quel principio supremo costituzionale della sovranità che appartiene al popolo, che viene esercitata attraverso l’organo parlamentare, stanno violando, in primo luogo, attraverso il rinnovo tacito di quell’accordo.
A spiegarlo a Dinamopress è l’avvocato Antonello Ciervo, legale che fa parte del nodo romano di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Spiega Ciervo: «L’articolo 80 della Costituzione prevede che il Parlamento debba autorizzare la ratifica dei trattati internazionali che abbiano natura politica e che determinano degli oneri finanziari per il bilancio dello Stato». Ecco, prosegue Ciervo: «Non c’è bisogno di un giurista per comprendere che il Memorandum tra Italia e Libia, del cui rinnovo si discute in questi giorni, ha natura politica. Il quale accordo non è stato mai autorizzato dal Parlamento, e, inoltre, ha comportato oneri finanziari enormi per le casse pubbliche. Infatti, abbiamo usato i soldi dei contribuenti italiani che erano nel Fondo Africa e che dovevano servire a finanziare interventi di cooperazione allo sviluppo per sovvenzionare la guardia costiera libica». A proposito dei fondi impiegati, Ciervo fa un passo indietro di due anni, al 2 Febbraio del 2017, quando, a Roma, Fayez Mustafa Serraj Presidente del Consiglio Presidenziale Nazionale dello Stato di Libia, e Paolo Gentiloni, Presidente del Consiglio dei Ministri per il Governo della Repubblica Italiana, firmano il Memorandum con «validità triennale e che sarà tacitamente rinnovato alla scadenza per un periodo equivalente, salvo notifica per iscritto di una delle due Parti contraenti, almeno tre mesi prima della scadenza del periodo di validità». E ricorda: «All’epoca, come Asgi, presentammo, in origine, ricorso al Tar del Lazio, impugnando gli atti che consideravamo uno sviamento di risorse. Si terrà, in questo stesso senso, proprio il prossimo aprile davanti al Consiglio di Stato, il giudizio che dovrà stabilire se lo Stato italiano ha impiegato correttamente questi fondi pubblici». Soldi, tanti, che sono stati usati per formare la marina libica, dotarla di gommoni, elicotteri, equipaggiamenti, mentre nessuno sa con certezza quante risorse debbano ancora essere stanziate dall’Italia e dalle altre cancellerie europee». Quello che è certo, conclude l’avvocato Antonello Ciervo: «È che la guardia costiera libica è diventato il nostro laboratorio. Abbiamo appaltato ai libici ciò che un paese democratico europeo non può fare, ovvero la violazione sistematica dei diritti umani dei migranti. C’è infatti una incapacità oggettiva a gestire le operazioni di soccorso in mare da parte della marina libica. E c’è inoltre un sistema di porte scorrevoli tra i trafficanti e i marinai, senza voler aggiungere altro alle inchieste giornalistiche condotte finora».
Di altrettanto certo, dunque, c’è che i fondi italiani destinati alla cooperazione internazionale allo sviluppo sono stati sviati, quindi distratti dai loro fini reali, destinati a fini militari per impedire ai migranti di partire. A riferirlo sono stati documenti rimasti in un primo tempo segreti, e poi ottenuti dagli avvocati di Asgi in seguito a una richiesta di accesso agli atti presentata al ministero degli Affari Esteri. In quelle note di spesa firmate dall’attuale direttore generale del Ministero, il responsabile per le politiche migratorie, Pier Luigi Vignali, c’è la prova provata che nell’ambito dei finanziamenti comunitari previsti dal fondo fiduciario per l’Africa, 200 milioni di euro, appositamente inseriti nella legge di bilancio approvata l’11 dicembre 2016, dovevano servire per il controllo delle frontiere e la gestione dell’immigrazione. Nel dettaglio della spesa, la cui rendicontazione oggi a due anni di distanza è rimasta segreta, c’erano 18 milioni di euro che sono stati destinati all’Oim per il programma di rimpatri e sostegno alle comunità locali libiche “Comprehensive and multi-sectoral action plan in response to the migration crisis in Libya” e 10 milioni destinati all’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) per il programma “expanding Unhcr engagement Libya”. Nella stessa lista della spesa c’erano, però, soprattutto, diversi milioni di euro destinati «alle autorità libiche per migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione», ma anche a quelle tunisine, per la fornitura di mezzi navali e terrestri da impiegare per il pattugliamento anti-migranti, e la formazione dei militari. È il lato oscuro della cooperazione italiana allo sviluppo, di come li “aiutiamo” a casa loro. Un sostegno finanziario a stati autocratici che da oggi sarà rinnovato per altri tre anni. Perché, d’altronde, appaiono di circostanza le dichiarazioni pronunciate in queste ore dagli esponenti del governo giallo-rosso. Il ministro degli esteri, Luigi Di Maio, da parte sua, ha spiegato che l’accordo, passato il 2 novembre, sarà rinnovato per modificare in meglio i contenuti, con particolare attenzione ai centri e alle condizioni dei migranti, perché nessuno può smentire che grazie a quel memorandum siamo passati da 170 mila sbarchi a 2200 sbarchi in due anni». Mentre sull’andamento del momerandum riferirà mercoledì 6 novembre, alla Camera, il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese. Attraverso quello che appare un “capolavoro linguistico” degli addetti alla comunicazione politica del presidente del Consiglio, invece, Giuseppe Conte ha dichiarato che l’accordo tra Italia e Libia sarà rinnovato, «perché ha posto le basi per una cooperazione per contrastare l’immigrazione clandestina, il traffico di esseri umani non può essere gettato al mare». Così, in vista del rinnovo dell’accordo, sul piede di guerra, contro il governo, si è formato un ampio fronte di protesta. Dall’associazione magistratura democratica, ad esempio, hanno riferito in una nota stampa che: «l’esperienza dimostra che i finanziamenti non sono serviti a migliorare le condizioni di vita dei migranti nei centri di detenzione, dove sono soggetti a violenze di ogni genere e ridotti in schiavitù». E che tale quadro non solo è quotidianamente riscontrabile dai magistrati italiani impegnati nelle audizioni dei richiedenti asilo, ma che la stessa Procura della Corte penale internazionale dell’Aia ha aperto un fascicolo di inchiesta «per i crimini contro l’umanità posti in essere contro i migranti in Libia», sulla base di un rapporto presentato dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonìo Gutierres. Un dossier delicato nelle mani dei giudici de L’Aja, in cui ora si fa riferimento anche agli accordi internazionali tra la Libia e l’Italia.
È nel frattempo partito anche un mailbombing che in poche ore ha raccolto migliaia di adesioni, indirizzato alla mail del Presidente del Consiglio, e che è cominciato da alcune delle organizzazioni che fanno parte del Tavolo Asilo Nazionale – tra cui A buon diritto, Acli, Amnesty International, Arci, Caritas, Legambiente – le quali chiedono al governo Conte bis di annullare il Memorandum Italia-Libia, in nome della dichiarata «discontinuità» nelle politiche migratorie. Perché le prove delle violazioni dei diritti umani ci sono, ed è quanto hanno spiegato due giorni fa in una conferenza stampa a Roma, promossa proprio dal Tavolo Asilo e dalla campagna Io accolgo, i colleghi giornalisti: Nello Scavo di Avvenire, Francesca Mannocchi de L’Espresso e Philipp Zahn della Televisione svizzera di lingua tedesca, che da anni, ormai, raccontano delle violenze della guardia costiera libica, e degli orrori dei centri di detenzione governativi per i migranti. Quelli per i quali lo Stato italiano ha già speso «oltre 150 milioni di euro dal 2017 appunto per finanziare la formazione della Guardia Costiera e del personale impiegato nei centri di detenzione in Libia». I conti li ha fatti la Ong Oxfam, che in un dossier ha raccolto storie come quella di A:A, uomo eritreo di 30 anni, il quale così ha raccontato ad Oxfam, in una testimonianza, che, per il suo contenuto significativo, merita di essere riportata integralmente. «Facevo parte del gruppo di 450 persone detenuto a Bani Walid che è stato scambiato con un altro gruppo di 340 detenuti a Sherif. Bani Walid è gestito da Mohamed Muski che è un famoso trafficante di armi. La prigione di Bani Walid era un hangar, mentre a Sherif eravamo rinchiusi in un tunnel sotterraneo dove si viveva costantemente al buio. In tutto ho vissuto un anno e mezzo di detenzione in entrambe le prigioni, dove tutti vivevamo in condizioni terribili, con tantissime persone che si ammalavano e non venivano curate. Molte morivano e venivano seppellite come animali. Le donne venivano stuprate davanti a noi. Venivamo picchiati ogni giorno dai carcerieri che erano scelti dai trafficanti tra i migranti stessi».
da DinamoPress