Da Poggioreale a Cavalleggeri, per un nuovo dibattito sulle detenzioni
La stampa napoletana ci racconta in questi giorni delle proteste e delle quattro morti (tre per suicidio) avvenute nel carcere di Poggioreale nel corso dell’ultimo mese, come eventi collegati all’arrivo dell’estate e all’insopportabile caldo che pure i detenuti stanno soffrendo nelle celle. È come dire, seguendo il ragionamento, che con temperature più basse rispetto a quelle attuali sia condizione umana il restar chiusi in una stanza di pochi metri quadrati insieme ad altre dieci-dodici persone, disponendo di un solo bagno, o che le carenze nell’assistenza sanitaria in carcere siano da imputare alla stagione balneare e alle ferie estive del personale.
Le cose naturalmente non stanno così. Poggioreale è un carcere in cui non si può vivere, un inferno condiviso da duemila e trecento persone a fronte di una capienza massima di mille e seicento. Lo scorso 16 giugno una protesta ha coinvolto quasi duecento carcerati in seguito al mancato ricovero di un detenuto che aveva perso conoscenza a causa della febbre alta dovuta a un’intossicazione alimentare. La protesta non riguardava solo l’assistenza sanitaria, ma le condizioni di vivibilità del carcere, dal sovraffollamento alle condizioni igieniche, passando per l’eterna promessa dei lavori di ristrutturazione.
La visita del direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, due giorni dopo la rivolta, sembrerebbe avere sbloccato le operazioni, nonostante i dodici milioni del ministero (destinati a interventi nei padiglioni Salerno, Napoli, Milano e Livorno) fossero già pronti da tre anni. Si tratta di lavori, in ogni caso, che non potranno modificare la situazione di sofferenza dei detenuti e le carenze strutturali del carcere.
Bisognerebbe trovare il coraggio per dire che il carcere di Poggioreale è irriformabile e che la battaglia necessaria è quella per il suo superamento più che per la sua ristrutturazione. Poggioreale va chiuso, non solo perché sovraffollato (fino a trecentocinquanta detenuti per padiglione), ma perché costruito con logiche novecentesche, cameroni dove si ammassano persone come animali in gabbia e spazi comuni con poca aria e troppo cemento. Perché il presidio di assistenza sanitaria del padiglione San Paolo è inadeguato rispetto alla mole di detenuti. Perché gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno e il numero dei suicidi preoccupante.
Se quello di Poggioreale è il caso più eclatante, non è però l’unico. A Santa Maria Capua Vetere i detenuti lamentano la cronica assenza d’acqua per un errore di costruzione delle condutture; ad Ariano Irpino non ci sono attività né educatori e il solo personale presente è quello carcerario; a Pozzuoli le detenute arrivano anche a quattordici per stanza. Eppure in Campania, come in tutta Italia, l’unica risposta è la costruzione di nuove carceri. È questa la soluzione alla mancanza di personale e di spazio: nonostante i reati diminuiscano, infatti, la popolazione carceraria aumenta, colpendo soprattutto le fasce sociali più precarie, in virtù di una severità “tattica” nei confronti dei reati che creano allarme sociale, a cominciare da quelli relativi all’uso di sostanze e all’immigrazione. Dal 1990 a oggi, la popolazione carceraria è aumentata da trenta a settantamila persone, ma l’idea di ridurne il numero o di intervenire sul sistema di detenzione non è in nessuna agenda politica. Già prima dell’alleanza con la Lega, il Movimento Cinque Stelle aveva inserito nel programma di governo una serie di restrizioni alla sorveglianza dinamica (la possibilità di lasciare una certa libertà di movimento ai detenuti tra una cella e l’altra all’interno dello stesso padiglione) e al regime penitenziario aperto.
In perfetta coerenza con la linea degli ultimi governi, lo scorso giugno i ministri della difesa e della giustizia, Trenta e Bonafede, hanno firmato, con l’obiettivo di “offrire una concreta soluzione alla nota problematica relativa al sovraffollamento delle carceri”, un protocollo che prevede la riconversione di alcuni immobili militari in strutture penitenziarie. Tra questi, la caserma Cesare Battisti del quartiere napoletano di Cavalleggeri d’Aosta, che dovrebbe diventare un istituto di custodia attenuata per detenute madri o un penitenziario minorile.
A quasi un mese dalla firma del protocollo, però, è difficile acquisire notizie più precise. Considerando la vastità della caserma, sembra difficile che questa possa essere destinata a ospitare soltanto le detenute madri attualmente recluse nel carcere di Lauro (uno dei pochi che non ha problemi di sovraffollamento), quando è invece da anni che si sente parlare della possibile chiusura del femminile di Pozzuoli. Allo stesso tempo, l’eventuale spostamento del carcere minorile di Nisida non può non essere collegato ai tentativi di inserimento dell’isola negli ultimi piani di riqualificazione dell’area industriale di Bagnoli, con concreti rischi di speculazione collegati alla costruzione di strutture alberghiere di lusso e all’installazione del porto turistico.
In assenza di referenti politici, scomparsi i partiti che storicamente si occupavano della questione carceraria e dei diritti dei detenuti, considerando la debolezza dei movimenti sociali sul tema e la latitanza degli intellettuali, appare al momento proibitivo riaprire il dibattito pubblico su temi come la riduzione del sistema detentivo, l’estensione delle pene alternative e il diritto penale minimo. Eppure, nei prossimi mesi, proprio da Napoli e dalla Campania verranno d’attualità una serie di questioni che andrebbero connesse tra loro per provare a capovolgere il discorso: non più “tanto carcere per pochi” ma “meno carcere per tutti”. Il tentativo di riconversione della caserma Battisti come volano per i piani speculativi su Nisida, l’esplosione delle criticità di Poggioreale e Pozzuoli, l’anniversario della rivolta del luglio ’68 a Poggioreale (tappa fondamentale per numerose conquiste di diritti da parte dei detenuti), potrebbero essere l’occasione per far ripartire la riflessione sulle istituzioni totali, mettendo in discussione non solo le singole strutture e il loro funzionamento, ma un intero modello che oggi appare antistorico, iniquo e strumentale a una becera propaganda sulla pelle delle persone.
Riccardo Rosa
da Monitor