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Mentre in tv si urla di guerra

Nugoli di bambini si muovono increduli fra le macerie del mondo. Sono bambini ai quali mancano indumenti, cibo, farmaci, giochi, scuola, serenità e molto altro ancora. Ci sono molti bambini, ma manca l’infanzia.

di Marco Sommariva

Quando in TV sento i giornalisti parlare di guerra, resto sempre molto impressionato dalla loro sicurezza nel riportare la propria opinione che, a volte, viene espressa pure a caldo, poco tempo dopo l’accaduto; così come mi colpisce la cultura politica, militare, storica e geografica che sta a monte delle loro esternazioni perché, vista la decisione con cui le espongono, non posso immaginarli impreparati, partecipare solo per incassare il gettone di presenza che pare oscilli fra i duecento e i tremila euro. Ritengo impossibile presenzino unicamente per denaro o per eccesso di ego.

Fra questi giornalisti mi fa molto effetto anche chi, certo d’avere la verità in tasca, s’accalora, strilla, cerca d’imporre il proprio punto di vista; in questi casi, mi torna sempre alla memoria cos’ha scritto George Orwell in Omaggio alla Catalogna, una cronaca della guerra civile spagnola vissuta al fronte dall’autore, dal dicembre del 1936 al giugno del ’37: “È la stessa cosa in tutte le guerre; i soldati combattono, i giornalisti urlano […]”.

La distanza in termini di chilometri, che separa i giornalisti che predicano negli studi televisivi dal fronte in cui accadono gli episodi che si ritiene di poter analizzare senza alcuna possibilità d’errore, magari mentre si sta comodamente seduti su una poltrona ergonomica avviluppati nell’abito nuovo acquistato apposta per l’occasione, mi ha sempre fatto temere che potesse pregiudicare la correttezza delle conclusioni di questi signori.

In questo senso, qualche dubbio doveva averlo anche Orwell visto che, sempre in Omaggio alla Catalogna, scriveva: “Per tutta la durata dei combattimenti, non riuscii mai a fare la corretta “analisi” della situazione, che invece veniva così elegantemente descritta e interpretata da giornalisti lontani centinaia e centinaia di chilometri”. Al riguardo, sulle pagine dello stesso libro l’autore aggiungerà: “Quasi tutte le corrispondenze giornalistiche di quel periodo venivano cucinate da giornalisti lontanissimi da Barcellona, e non solo erano imprecise nei fatti, ma volutamente ingannevoli”.

Mi domando perché un giornalista voglia volutamente ingannare i suoi lettori. A leggere Joseph Conrad, sarebbe lo stesso pubblico che segue il giornalista a invogliarlo in tal senso, dato che nel romanzo Il caso scrive: “Può mai essere affare di un giornalista capire qualcosa? Mi sa di no. Lo condurrebbe troppo lontano dalle realtà che sono il pane quotidiano della mente del pubblico”.

Per lo scrittore polacco naturalizzato inglese, i giornalisti non forniscono una versione esatta delle questioni più semplici neanche per puro caso: “Da quando aveva lasciato il mare era rimasto stupito nello scoprire che le persone istruite non erano meglio delle altre. Nessuno mostrava un qualche giusto orgoglio per il proprio lavoro; dagli idraulici, che erano semplicemente dei ladri a, poniamo, i giornalisti (a quanto pareva li considerava una classe particolarmente intellettuale), i quali mai, neanche per puro caso, fornivano una versione esatta delle questioni più semplici” – sempre da Il caso.

In One Big Union, Valerio Evangelisti scrive di giornalisti al servizio dei politicanti: “Fratelli […] hanno cercato di persuadervi che il capitalismo sia inevitabile, che la disoccupazione che flagella il paese sia una catastrofe naturale. Ebbene, vi dico che non è così. La crisi non cade dal cielo: alla base ha il vostro sfruttamento oltre il lecito e l’avidità di sfruttatori che campano del lavoro altrui. In questo stesso momento, i ristoranti di lusso di Chicago, di Saint Louis e di New York sono pieni, e voi lo sapete. Parassiti oziosi consumano bottiglie di vino francese al fresco in secchielli pieni di ghiaccio. Tagliano la faraona e il vitello arrosto. Sono gli stessi che parlano di crisi. I politicanti e i giornalisti al loro servizio invocano la solidarietà nazionale”.

Fosse vero che ci sono giornalisti al servizio dei politicanti, allora forse si spiegherebbero certi contenuti che danno l’idea d’essere piuttosto fantasiosi, come se chi firmasse il pezzo fosse disposto a costruire un regno di castelli in aria pur di far passare qualsiasi menzogna, magari dietro un compenso che non dev’essere necessariamente in denaro; ancora da One Big Union di Evangelisti: “Il contenuto degli articoli era fantasioso tanto quanto lo strillo. Cospirazioni, sbarchi notturni di terroristi di professione, manipolazione di dinamite in cantine ammuffite. Bob ne sorrideva, e al tempo stesso era grato ai giornalisti. Facili da comprare, pronti a ogni menzogna, erano gli alleati più sicuri della gente come lui, fedele all’ordine costituito. Quanto più la bugia era colossale, tanto più faceva presa. Se non fosse stato un agente infiltrato fra i sovversivi, e se avesse saputo scrivere, avrebbe fatto il giornalista. Un modo come un altro di servire la patria”.

Comunque, credo anch’io, come ha scritto il compianto Valerio, che non tutto è perduto, che qualcuno che si salva c’è sempre, anche se magari non avrà spazio sulle prime pagine dei giornali: “La stampa risponde a chi la possiede. Puoi trovare, occasionalmente, un giornalista onesto, che esprimerà le sue critiche in termini velati. In rubriche secondarie, ben nascoste. Quelli di prima pagina sono puttane” – sempre da One Big Union.

E in effetti “qualcuno che si salva” c’è anche se, proprio per questo, per serietà professionale, finisce per non fare una bella fine; sto parlando del giornalista americano di origini ebraiche, Jeremy Loffredo, arrestato dalla polizia israeliana insieme ad altri tre giornalisti a un posto di blocco in Cisgiordania, con l’accusa di “aiuto al nemico in tempo di guerra” e di “aver fornito informazioni al nemico”; in pratica, la colpa del giornalista sarebbe quella d’aver rivelato i danni causati da alcuni attacchi missilistici iraniani, specificando dettagliatamente i siti sensibili colpiti, in particolare la base aerea di Nevatim e il quartier generale del Mossad a Tel Aviv.

Detto che a non fare una bella fine non è “qualcuno” ma sono tanti – mi limito a ricordare che il numero dei giornalisti che hanno perso la vita a Gaza da ottobre 2023 a ottobre 2024, ha superato quello dei reporter uccisi in un anno in tutti i conflitti nel mondo, torno su quest’idea che i giornali devono riportare solo vittorie perché non è un’usanza solo dei giorni nostri.

In un romanzo del 1955 di Graham Greene, L’americano tranquillo – ambientato durante la guerra d’Indocina combattuta tra il 1946 e il ‘54, fra l’esercito coloniale francese sostenuto dagli Stati Uniti e il movimento per l’indipendenza del Vietnam – , si racconta di un soldato statunitense che, benché molto diverso dai suoi connazionali volgari e prepotenti, è pur sempre un uomo profondamente convinto del “grande sogno americano”, preda di un idealismo da invasato che non batte ciglio neppure alla vista delle vittime degli attentati di cui egli stesso è artefice.

Bene, in queste pagine troviamo un passaggio, a parer mio, illuminante: “dopo quattro giorni, con l’aiuto dei paracadutisti, il nemico era stato respinto a ottocento metri dalla città. Era stata una disfatta. A nessun giornalista era consentito l’accesso, né si potevano mandare telegrammi, perché i giornali dovevano riportare solo vittorie”.

Probabilmente, il giornalista Jeremy Loffredo arrestato dalla polizia israeliana, non s’è fatto corrompere e, molto probabilmente, non era in qualche modo ricattabile: “le guerre, disse, anche quando vengono definite semplici misure amministrative, sono impopolari, bisogna convincere deputati e senatori, diplomatici e giornalisti, se non si convincono bisogna corromperli, se non è possibile corromperli bisogna ricattarli […]” – questo lo scrive Friedrich Dürrenmatt nel romanzo L’incarico, pubblicato nel 1986.

L’incarico è un libro capace di trascinarci in un mondo alla mercé di occhi elettronici, onnipresenti e occulti, che osservano tutto e tutti, un po’ come l’attuale mondo che pare lo si percepisca, ormai, solo attraverso l’obiettivo glaciale di telecamere piazzate a ogni angolo di strada, droni e satelliti. Insomma, un romanzo a dir poco profetico, vista l’importanza data dall’attuale società all’immagine, una società in cui l’opinione pubblica ne esce sempre soddisfatta perché, quotidianamente, gli viene data in pasto quella realtà definita da Conrad il “pane quotidiano della mente del pubblico”; un’opinione pubblica che, spesso, neppure s’accorge che il “pane quotidiano” gli è stato servito da chi è padrone di sciami di obiettivi che volano nei nostri cieli e anche oltre, e che quindi ha avuto tempo e modo per scegliere i frame da servire su piatti d’argento, e pazienza se le mani che li reggono sono insanguinate.

Per fortuna, in mancanza d’immagini determinanti ci sono ancora testimonianze che arrivano a destinazione: ricordate la lettera aperta a Joe Biden e Kamala Harris, inviata da diversi medici americani che avevano prestato servizio a Gaza, i quali testimoniavano di bambini palestinesi “assassinati da colpi precisi e non casuali” di cecchini? Era una lettera in cui si chiedeva di porre fine a quest’atrocità. Leggo su un articolo pubblicato da Il Giornale d’Italia  che, dopo la lettera dei medici americani, le informazioni erano state riferite in un articolato dossier del New York Times e che l’Hasbara, la “propaganda aggressiva israeliana”, aveva accusato il giornale di New York d’aver riferito “falsità”. Nella replica, il giornale ha affermato che numerosi professionisti indipendenti specializzati in “ferite da arma da fuoco, radiologia e trauma pediatrico”, hanno dimostrato con prove concrete la veridicità delle parole dei medici americani che avevano raccolto le testimonianze sui fatti.

Qualcuno potrebbe dire che, da sempre, i bambini muoiono durante le guerre. È vero. Per esempio, su Ragazzi di zinco di Svetlana Aleksievic, un libro in cui l’autrice fa parlare alcuni dei protagonisti dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979-1989), leggo: “Stavamo rastrellando un kislak. Di solito spalanchi la porta con un calcio e prima di entrare nella casa butti una bomba a mano per non beccarti una raffica di mitra: perché dovresti rischiare?, con la bomba vai sul sicuro. Lancio dunque la mia bomba all’interno ed entro: per terra ci sono delle donne, due bambini e un lattante. In una specie di piccola scatola… Che gli faceva da carrozzina… Adesso, per non impazzire, mi cerco delle giustificazioni. […]”.

Qualcun altro potrebbe osservare che per risolvere il problema basterebbe rifiutarsi di gettare bombe nelle case o di gettare bombe in generale; è vero, se con questo s’intende disertare perché, diversamente, non c’è molta scelta: “[13 febbraio 2003] i federali accerchiano la casa di Movsar Termulaev. Sua moglie dalla finestra vede un soldato estrarre una granata e si precipita fuori gridando: “Ci sono dei bambini in casa!”. Il soldato ripone la granata, ma i commilitoni prendono Movsar, lo picchiano e lo portano via. Quella sera lo lasciano dalle parti del villaggio Petropavlovskaja, con fratture e grondante di sangue […]” – estratto da Proibito parlare di Anna Politkovskaja.

Son tante le cose che si potrebbero dire su questo terribile argomento; un’altra, è che non si possono mettere sullo stesso piano soldati che lanciano bombe nelle case altrui senza sapere chi c’è dentro, e cecchini che deliberatamente assassinano bambini con “colpi precisi e non casuali”. È vero anche questo.

Se la memoria non m’inganna, il “pane quotidiano” di campagne, villaggi e città bombardati che i servizi televisivi ci servono su piatti d’argento, è frutto di un impasto in cui non manca mai un ingrediente: i nugoli di bambini che si muovono increduli fra le macerie, guardano curiosi le telecamere o camminano spaesati accanto ad adulti che migrano, solitamente donne d’ogni età e vecchi.

Sono bambini ai quali mancano indumenti, cibo, farmaci, giochi, scuola, serenità e molto altro ancora; l’elenco sarebbe lunghissimo, se non fosse che Khaled Hosseini, nel suo romanzo Il cacciatore di aquiloni – una storia ambientata in mezzo ai burrascosi eventi dell’Afghanistan, compresa l’invasione sovietica del ‘79 e l’ascesa del regime integralista talebano – è stato capace di sintetizzarlo così: “ci sono molti bambini, ma manca l’infanzia”.

www.marcosommariva.com

 

 

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