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Messico: proteste, arresti e morti per aumento della benzina

Tre morti e oltre 600 arresti, in Messico per le proteste contro l’aumento della benzina, deciso dal presidente neoliberista Enrique Peña Nieto. Cartelli e slogan sono tutti contro di lui, la cui popolarità è scesa ai minimi storici. A disapprovare la sua gestione e la politica economica, già prima della visita di Trump durante la campagna nordamericana e i fatti di questi giorni, è il 74% dei cittadini: il peggior gradimento ricevuto da un presidente messicano dal 1995.

A differenza dei suoi omologhi progressisti dell’America latina, Nieto gode di ottima stampa, quando dichiara di «bere tutti i giorni Coca cola light», sorride con la bella consorte ex attrice Angelica Rivera e glissa sugli scandali che lo coinvolgono, come quello di averle favorito l’acquisto di una casa da 7 milioni di dollari. Secondo Amnesty International, lo Stato messicano conta con «un apparato pubblicitario» che riesce a rendere invisibile la crisi conclamata in termini di diritti umani «non solo negandone la proporzione, ma anche rispondendo in modo molto negativo alle critiche». Anche in questa circostanza, Nieto ha negato l’evidenza dicendo ai cittadini di «comprendere il disagio», ma che le misure erano necessarie e che «non farlo sarebbe stato peggio»: non certo per quel 55,3 milioni di poveri (il 56,2% della popolazione), in continuo aumento sotto il suo mandato ai quali per fare un pieno di benzina, ora servirà tutto lo stipendio. Già ora, su una lista di 59 paesi stilata dall’agenzia finanziaria Bloomberg, i messicani, al pari dei sudafricani, sono quelli che consumano in combustibile una percentuale maggiore dei loro introiti annuali (il 3,5%).

A partire dalla campagna elettorale del 2012, Nieto ha continuato a promettere che in Messico (ottavo produttore di petrolio al mondo) non ci sarebbe mai stato un «gazolinazo» e che anzi la sua riforma energetica, che ha messo fine al monopolio della benzina detenuto dall’impresa statale Pemex e ha aperto al libero mercato lo sfruttamento di idrocarburi e l’elettricità avrebbe portato alla diminuzione delle tariffe. In realtà, la benzina più usata dai messicani sotto il suo mandato è aumentata già del 48%. Intanto, a seguito dei saccheggi, il Grupo Gasolinero G500 (1.800 stazioni di servizio), ha annunciato la chiusura di 400 di queste.

In 20 stati, ai saccheggi si sono alternati i blocchi stradali e le manifestazioni, animate da trasportatori, taxisti, studenti, professori, contadini, casalinghe, commercianti… In diverse parti del paese vi sono stati scontri con la polizia, feriti e arresti di massa. E un rinnovato allarme da parte delle organizzazioni per i diritti umani circa l’atteggiamento di polizia e militari, in un paese che, negli ultimi dieci anni, conta circa 30.000 scomparsi e oltre 120.000 morti. Se le statistiche restano quelle attuali (quasi 60 omicidi al giorno), il mandato di Nieto sarà il più violento dall’inizio della cosiddetta lotta al narcotraffico, nel 2006.

Molti casi eclatanti hanno evidenziato quanto la brutalità poliziesca e le torture siano moneta corrente: l’ultimo è stato quello della scomparsa dei 43 studenti normalistas di Ayotzinapa, attaccati da narcotrafficanti e polizia. Ma in precedenza c’era stato il massacro di Tanhuato (a maggio del 2015, la polizia federale ha ucciso 22 persone); quello di Apatzingan (a gennaio 2015, la polizia federale ha ammazzato 5 persone e ne ha finito un’altra); a Tlataya (a giugno del 2014, i militari hanno eliminato 15 persone). «Uno stato fallito», gridano le organizzazioni popolari al quinto giorno di protesta, annunciando altre manifestazioni.

E Nieto ha nominato nuovo ministro degli Esteri Luis Videgaray, artefice della visita di Trump in Messico.

Geraldina Colotti

da il manifesto