Dalla Gran Bretagna alla Serbia, dalla Spagna alla Grecia. Un team di ricercatori europei ha analizzato le condizioni di vita nei centri per il rimpatrio dei migranti durante la pandemia nei Paesi dell’Ue e non solo. “Sono strutture da abolire, servono solo come spauracchio”.
di Stefano Galieni
La Commissaria europea per i diritti umani, Dunja Mijatovié, all’esplodere della pandemia aveva chiesto ai governi degli Stati membri di sospendere il trattenimento nei centri per il rimpatrio presenti, a vario titolo, nei 27 Paesi dell’Unione. Le motivazioni della raccomandazione erano dettate dal fatto che la chiusura delle frontiere avrebbe impedito di effettuare i rimpatri e che i problemi di ordine sanitario si sarebbero acuiti. Richieste che non sono state mai rispettate.
Un punto di osservazione sulle condizioni dei migranti ora ce lo offre il volume, da pochi giorni in libreria edito da Seb 27, dal titolo Corpi reclusi in attesa di espulsione. La detenzione amministrativa ai tempi della sindemia, curato da Francesca Esposito, Emilio Caja e Giacomo Mattiello.
Il testo, a cui hanno collaborato ricercatrici e ricercatori in ambiti multidisciplinari e provenienti da diversi Paesi, ha il gran pregio di offrire una panoramica, per quanto non esaustiva (non tutti i 27 Stati sono trattati nel volume che però considera anche Paesi extra Ue) su quanto è accaduto nel sistema di internamento per persone la cui presenza è considerata illegale, soprattutto negli ultimi due anni.
Gli autori non mancano di spiegare in sintesi come funzionino nel Paese in esame, tali strutture – che hanno elementi in comune e altri caratteristici legate ai contesti – e i loro punti di vista, come di osservazione, diversi, non impediscono ad ognuna/o di indicare un approccio radicalmente abolizionista come unica soluzione praticabile. Ne parliamo con Francesca Esposito, lecturer presso la Scuola di scienze sociali all’università di Westminster a Londra e direttrice associata di Border criminologies, (una piattaforma interattiva sulla detenzione) realizzata all’Università di Oxford. Il suo punto di vista di ricercatrice e attivista – ha lavorato molto soprattutto in merito alla detenzione delle donne migranti – ha il pregio di contenere i dati inequivocabili delle analisi quantitative e qualitative e lo sguardo mai lontano dall’indignazione verso un sistema che considera ingiusto e criminale.
“Premetto che invece di “pandemia” abbiamo scelto di usare il termine “sindemia”, utilizzato da Merrill Singer quando si affrontava l’emergenza Aids. Sindemia perché è impossibile non considerare insieme la crisi sanitaria e i suoi aspetti sociali. Le disparità sociali non solo influiscono nel poter o meno evitare il contagio, ma si sono acuite, creando un numero enorme di nuovi poveri e marginali – afferma Esposito. Ed entrando nel tema che affrontiamo nel libro, non possiamo che confermare il fatto che il sistema di trattenimento non si è bloccato. Anzi, si è nel frattempo riorganizzato”.
La curatrice del libro fa alcuni esempi: “In Italia non c’è stata una misura ufficiale per scarcerare chi è nei Cpr; solo provvedimenti, indicazioni, misure vaghe da adottare e soprattutto tardive. Si è creata quella che Stefano Anastasia (fra i fondatori di Antigone, ora Garante dei detenuti nel Lazio, ndr) definisce una “deistituzionalizzazione larvata”. In alcuni centri il sistema Cpr “non è più andato a cercarsi clienti” e si è contratto.
Si è continuato a rinchiudere chi proveniva dai penitenziari e i marginali senza fissa dimora. In Spagna, come scrive Ana Ballestros Pena, c’è stata la “breve estate dell’abolizione dei Cie”, iniziata il 6 maggio 2020 e terminata il 23 settembre. Un provvedimento, all’estero idealizzato, con cui si sono chiusi quelli che in Spagna sono ancora Cie ma che si è tradotto in una contemporanea diminuzione delle libertà in tutte le altre strutture per migranti.
E la crisi si è sentita soprattutto nelle enclave di Ceuta e Melilla, dove c’è stato sovraffollamento. Ora si è tornati alla normalità. In Svezia e Danimarca tutto è continuato come se nulla fosse”. Quello che è stato evidente con la sindemia è che l’Europa non ha un sistema coordinato e non attua direttrici comuni, che pure esistono. Ogni Paese ha agito per conto proprio al punto che, come è accaduto per le carceri, anche i centri sono rimasti nell’ombra, attraversati dalla paura del contagio. Molti migranti hanno raccontato di essersi sentiti abbandonati e dimenticati, ultimi fra gli ultimi. Secondo Francesca Esposito hanno prevalso quelle che vengono definite “gerarchie di meritevolezza” e valoriali, che hanno permesso ad alcuni di uscire e ad altri no.
“Nel Regno Unito ad esempio, come in Italia, state presto liberate le donne – del resto sono trattenute in numero minore – mentre chi è uscito dal carcere è rimasto dentro i centri. In Gran Bretagna si è verificata una concomitanza di eventi che ha portato ad una transizione epocale, come illustra Mary Bosworth. Si sono sovrapposte la Brexit, la sindemia e l’aumento dei tentativi di ingresso dalla Manica. Chi arrivava dalla Francia non poteva essere rispedito indietro perché il Regolamento Dublino vale solo per i Paesi Ue”.
La crisi sanitaria non è riuscita nemmeno a portare ad un minimo di consapevolezza sul fallimento del sistema dei centri per il rimpatrio. Se infatti in Italia negli anni passati non si è mai superata la soglia del 50% di rimpatri di persone che vi erano trattenute, nel resto d’Europa, si ricorda nel volume, raramente si è raggiunto il 60%. Il tutto riferito, ricordiamo, al rapporto fra persone trattenute e numero di “irregolarmente presenti” nel territorio ovunque infinitesimale. Il punto di vista di chi ha curato e scritto il volume però parte da un assunto diverso: “Io sono convinta che la reale funzione del trattenimento sia quella di spettacolarizzarlo. C’è chi dice che la stessa cosa avvenga per il carcere ma almeno in caso di reati, si parte da un’indagine e da un processo in cui dovrebbe prevalere la presunzione di innocenza – continua Francesca Esposito.
Verissimo che anche in tale contesto prevale la discrezionalità di chi giudica, ma con chi è immigrato l’onere della prova, cioè del diritto a restare libero, spetta solo a chi è rinchiuso. In quanto stranieri, si è illegali a prescindere, e prevale un approccio repressivo che ad esempio è plateale come pretesto per trattenere i rom. Con loro ci si avvale della legge sull’immigrazione per svolgere operazioni di repressione punitiva.
Questo serve a chi comanda per dare sfoggio dell’esercizio del potere, di poter operare un controllo simbolico del territorio, di esibire l’orientamento politico. Con i centri si convalida lo spauracchio populista dell’invasione da cui difendersi. Più che l’effetto di deterrenza verso i migranti (con il messaggio “rischiate di finire qui”) i centri sono un messaggio rivolto agli autoctoni che si sentono rassicurati al punto da far passare in secondo piano i costi umani ed economici di queste strutture. Il controllo reale è effimero, ma mostra uno strumento potente per riaffermare la white imagine community, l’immagine di una comunità bianca che domina. Che siano anche uno strumento per fare business è solo un “guadagno collaterale”.
Nel volume si parla molto della situazione in Grecia, mentre dalla Germania giungono soprattutto storie personali e di Svezia e Danimarca si demolisce l’immaginario di Paesi attenti ai diritti umani – evidentemente non riguardano coloro che sono considerati illegali.
E significativo è il caso della Serbia di cui poco si parla: “Lì si è un contesto particolare – riprende Esposito – perché ufficialmente nel Paese esiste un solo piccolo centro nei pressi di Belgrado. Ma la Serbia sembra essere un unico centro di detenzione, con le persone a cui la libertà è spesso limitata e che funziona come un sistema di dighe che si aprono e si chiudono. I migranti devono restare poco nel Paese, quindi, periodicamente li si lascia circolare verso gli altri Stati dei Balcani che sono nell’Ue. La Serbia è un Paese di esternalizzazione delle frontiere ma che attende di entrare nell’Unione e che quindi, nel fermare o lasciar passare le persone, deve tenere conto delle proprie prospettive europee”.
Ma intanto già si agisce in una condizione di post-sindemia. Nel volume, a proposito dello scenario internazionale, si considera molto i nuovi accordi firmati a marzo e maggio 2020 fra Italia e Tunisia, che facilitano i rimpatri. “In Italia non solo è partita una svolta efficientista – conclude Esposito ma con Tunisi si è creato un sistema di porte girevoli.
I migranti arrivano, vengono chiusi nelle navi quarantena, passano nei Cpr e poi vengono rimpatriati rapidamente. Nel frattempo sono riprese dappertutto sommosse e rivolte, per tali ragioni, riprendiamo il punto di vista di Ruth Gilmore, secondo cui il tema dell’abolizione del sistema dei Centri e del regime delle frontiere deve diventare centrale. A nostro avviso non basta tutelare i più vulnerabili e chiedere, solo per loro, libertà. Si tratta di un sistema di cui possiamo fare a meno. Le risorse spese per bloccare le persone e chiudere le frontiere vanno spese per migliorare la vita di tutte e tutti, non per procurare morte”.
da Internazionale