Migranti: Crimini in Libia, «Italia e Malta siano processate dall’Aja per complicità»
Esposto depositato da giuristi e funzionari legali che in passato hanno fatto condannare il boia dei Balcani, in Rwanda e Cambogia. Anni di lavoro su documenti, perizie e testimonianze
di Nello Scavo
Da anni esaminavano documenti ufficiali, testimonianze oculari, registrazioni audio di comunicazioni in mare, filmati, tracciati navali, referti medici, perizie forensi, accordi diplomatici, inchieste giudiziarie e giornalistiche. Un metodo ferreo, maniacale. Senza mai dare nell’occhio. Così in passato hanno accertato le responsabilità dei boia nei Balcani, in Ruanda o in Cambogia. Ora quegli stessi esperti chiedono che davanti alla Corte dell’Aja stavolta vengano trascinate le autorità libiche e i loro presunti complici: Italia e Malta.
«Tra il 2017 e il 2021, le autorità italiane hanno infatti fornito alla guardia costiera libica un sostegno cruciale – si legge – per intercettare i migranti in mare e riportarli nei centri di detenzione, tra cui la fornitura di risorse e di attrezzature, la manutenzione delle stesse, e la formazione del personale coinvolto». Inoltre i funzionari italiani e maltesi «hanno agito in maniera coordinata con la guardia costiera libica nelle operazioni di recupero dei migranti per garantire che essi fossero intercettati e riportati in Libia». È questo uno dei cardini su cui si regge l’accusa del team legale che ha depositato presso la Corte penale dell’Aja un voluminoso esposto in cui ricostruisce la filiera della tortura. Gli autori del dossier sono i giuristi di “UpRights” (Olanda), “Adala for All” (Francia), e “StraLi” (Italia).
Il 2 marzo 2011 il Consiglio di sicurezza Onu aveva incaricato la Corte penale di investigare i crimini di guerra commessi in Libia. Nel frattempo l’Onu ha sottoposto a sanzioni vari capi milizia accusati di crimini contro i diritti umani, traffico di petrolio, armi ed esseri umani. La denuncia dei giuristi suggerisce che vi sia una connessione diretta tra il conflitto e i crimini di guerra contro i migranti. Tale legame qualifica gli abusi come crimini di guerra. Un nesso che, se accolto dall’Aja, spalancherebbe le porte agli ordini di cattura, sollevando gravi imbarazzi a Bruxelles, che ha sostenuto e cofinanziato le iniziative di Malta.
Nella denuncia si sostiene «che il sostegno fornito dalle autorità italiane e maltesi alla guardia costiera libica integri una forma di concorso nei crimini commessi contro i migranti, da cui deriva una responsabilità penale internazionale ai sensi dello Statuto della Corte». È il caso delle registrazioni audio pubblicate il 18 aprile 2019 da Avvenire – Si ascoltavano le comunicazioni tra Roma e Tripoli, con l’Italia a dare istruzioni in piena notte ai guardacoste libici chiamati a intercettare un barcone. Ordini non di rado trasmessi anche attraverso una nave della Marina italiana ormeggiata a Tripoli, ufficialmente per fornire supporto tecnico alle motovedette libiche di fabbricazione italiana, ma sulla quale salivano a bordo ufficiali libici a cui affidare le operazioni da compiere.
La correlazione tra il conflitto e gli abusi «soddisfa il requisito del “war crime nexus” richiesto dallo Statuto della corte penale per la qualificazione di crimini di guerra», spiegano gli autori alludendo alla necessità di stabilire una connessione diretta tra crimini di guerra e crimini contro i diritti umani commessi apparentemente al di fuori degli scontri. «I reati – spiegano – sono perpetrati da milizie che controllano i centri e partecipano al conflitto, contro civili che in alcuni casi sono costretti a prendere parte ad attività di natura militare (esempio: pulire armi, trasportare munizioni) o addirittura al conflitto stesso (reclutamento forzato)». In altri casi «le milizie hanno acquisito o mantenuto il controllo dei campi di detenzione dopo scontri militari. Ne consegue che il conflitto ha giocato un ruolo sostanziale nella commissione dei reati contro i migranti». E’ il caso, fra i tanti, della famigerata milizia al-Nasr di Zawyah, guidata dai fratelli Kachlaf, che vede nel maggiore della Marina Abdurahman al-Milad (Bija) uno degli esponenti di vertice e in suo cugino Osama Al Kuni Ibrahim, il direttore dei campi di detenzione ufficiali per migranti. Tutti i componenti di punta del clan sono destinatari di sanzioni internazionali e di “alert” dell’Interpol. Nel 2017 Bija, nonostante fosse già noto dai servizi segreti di vari Paesi e già allora indicato come trafficante di petrolio ed esseri umani anche in documenti ufficiali del Ministero della Difesa italiano, ottenne un visto per incontrare in Sicilia e a Roma le autorità del nostro Paese.
Nel corso delle indagini svolte dal team di giuristi sono state confermate le acquisizioni degli investigatori Onu e della giustizia italiana, che negli ultimi due anni ha condannato in primo grado quattro diversi aguzzini dei campi di prigionia statali libici. «Ogni centro analizzato in questi atti – viene spiegato – è parte di un attacco sistematico contro una popolazione civile in esecuzione della policy del gruppo armato che controlla il campo».
A corroborare le accuse ci sono poi le ammissioni di funzionari politici della diplomazia italiana: «Conosciamo le denunce dell’Onu e tutte le accuse riferite a innumerevoli violazioni dei diritti umani, sia nei centri di detenzione illegali che in quelli ufficiali». Nonostante questa piena consapevolezza il supporto non è mai stato fatto mancare. «Tali abusi costituiscono crimini contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma – si legge ancora –, inclusi omicidio, riduzione in schiavitù, tortura, imprigionamento, altri atti inumani e degradanti».
Dalla rivoluzione del 2011, la Libia è stata soggetta a un continuo conflitto armato e all’instabilità politica. I destinatari delle accuse sono membri delle milizie, personale del Dipartimento contro l’immigrazione illegale (Dcim) e della Guardia costiera. Quest’ultima, direttamente equipaggiata e addestrata dall’Italia, «concorre nei reati intercettando i migranti e riportandoli in Libia dove poi vengono trasferiti nei centri di detenzione».
Non bastasse, nel contesto del Memorandum d’intesa Italia-Libia «le autorità italiane hanno fornito alla Guardia costiera libica assetti navali e tecnologici, manutenzione di tali assetti, addestramento e coordinamento nelle specifiche “operazioni di salvataggio” dei migranti». Una condotta che «ha un collegamento causale con i crimini commessi dalle milizie contro i migranti riportati in Libia».
Le norme che inquadrano la responsabilità delle autorità italiane «non richiedono il dolo o l’intenzione di commettere il reato, ai sensi dello statuto della Corte Penale internazionale, ma solo la consapevolezza dell’intenzione del gruppo di commettere tale reato», ribadisce l’esposto. Allo stesso modo anche l’inchiesta giornalistica di Avvenire, The Guardian e The New York Times, mai smentita dalle autorità coinvolte, «dimostra che il coordinamento da parte di agenti maltesi delle operazioni della Guardia costiera libica o l’utilizzo di imbarcazioni private (come quelle adoperate nella strage di Pasquetta con il ruolo centrale del funzionario maltese Neville Gafà, ndr) per riportare migranti in Libia integra lo stesso titolo di responsabilità».
Alcuni dei firmatari della denuncia contro Libia, Italia e Malta sono stati funzionari nella giustizia internazionale e hanno contribuito a individuare e far condannare i responsabili di crimini commessi, fra l’altro, nella ex Jugoslavia, in Rwanda e in Cambogia. Alessandro Pizzuti, co-fondatore di UpRights, una delle tre organizzazioni firmatarie della denuncia, sottolinea che «i crimini commessi contro i migranti in Libia differiscono dalle atrocità del passato generalmente affrontate dalle corti e dai tribunali penali internazionali. In Libia le parti in conflitto prendono di mira i migranti perché sono percepiti come una risorsa cruciale per portare avanti i loro obiettivi politici e militari». Come osserva Nicolò Bussolati, vicepresidente di “StraLi”, il network di esperti legali con base a Torino, la comunicazione alla Corte penale chiede «di avviare un’indagine e di fare quindi un primo importante passo per assicurare che questi crimini, legati alla migrazione e tradizionalmente rientranti nell’ambito dei diritti umani e del diritto dei rifugiati, siano esaminati attraverso la lente del diritto penale internazionale».
da Avvenire