Frontex, l’agenzia europea che dovrebbe monitorare le frontiere, gioca di sponda con la Guardia costiera libica per portare chi fugge in un paese “non sicuro”. I documenti mostrano il piano dell’Ue per esternalizzare il lavoro sporco nel Mediterraneo. E i sistemi per comunicare tra le forze europee e i libici per intercettare i gommoni sui quali viaggiano i migranti. Un esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiede luce sulla complicità europea nei crimini commessi in Libia.
“Tripoli, Osprey 1. Operation complete”. È il 20 gennaio del 2021. Una comunicazione radio intercettata a bordo della motovedetta libica – Fezzan – con il velivolo Osprey dell’Agenzia per la sicurezza delle frontiere esterne all’Unione europea – Frontex – svela le modalità attraverso cui la guardia costiera libica opera, con il supporto dei mezzi navali ed europei, per riportare i migranti verso la Libia. Il paese che già nel dicembre del 2019 le Nazioni unite avevano dichiarato “non sicuro”, soprattutto per i rifugiati e i migranti che “continuano a essere regolarmente sottoposti a violazioni e abusi”. Le prove della complicità dell’Ue nei respingimenti di migranti verso la Libia sono molteplici.
C’è un video con le comunicazioni tra Osprey 1 di Frontex e Tripoli che mostra la presenza dell’aereo di Frontex sulla scena di un naufragio, mentre la motovedetta libica si avvicina, ordinando alla nave della Ong Sos Mediterranée, Ocean Viking, di allontanarsi e modificare la propria rotta. E ci sono documenti, sia pubblici sia riservati, nei quali è scritta la linea dell’Europa: formare la guardia costiera libica per delegarle le operazioni di intercettazione dei gommoni in viaggio verso l’Italia.
Esternalizzare le frontiere – Tra questi documenti c’è il report sull’addestramento dei libici e sulle modalità con cui questi comunicano con gli aerei di Frontex, con i nostri centri di soccorso e con la marina militare. Sono loro a individuare le barche cariche di donne, bambini e uomini e ad avvertire i centri di soccorso di Italia, Malta e Libia, che naturalmente è la prima a raggiungere il tratto di mare interessato da quando è stata istituita la zona Sar libica, grazie al memorandum firmato dal governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno.
Da quell’accordo discendono una serie di corollari: il primo è, appunto, la delega ai libici per il controllo delle frontiere europee. Esternalizzazione delle frontiere, si chiama. Fonti vicine a Minniti su questo sono in disaccordo: “Finché ci siamo stati noi al governo la direzione dei soccorsi spettava comunque alla nostra guardia costiera, che era legittimata ad arrivare fino alle acque territoriali libiche per salvare vite umane, dovete indagare su cosa sia successo dopo, con il governo Conte 1, quando alle motovedette italiane è stato impedito di spingersi fino alle acque internazionali”.
Abbiamo contattato la guardia costiera italiana, che però riconduce tutto all’entrata in vigore della zona Sar libica, una delle novità scaturite dall’accordo Italia-Libia promosso dal governo Gentiloni. Tra il rimpallo di responsabilità, nel mezzo, c’è un fatto certo: i libici riportano indietro i migranti. Nella pratica funziona così. Torniamo al 20 gennaio scorso, quando la motovedetta Fezzan, regalata dall’Italia alla Libia, arriva sul posto del naufragio. Il comandante libico comunica al comando di Frontex: “Tripoli, Osprey 1. Operation complete”. E poi si dirige con le 32 persone recuperate verso il porto della capitale dello stato che l’Onu considera “non sicuro”, non solo per le guerre intestine tra fazioni, ma anche per i centri di detenzione in cui finiscono i “respinti”.
Chi coinvolge i libici nelle operazioni di salvataggio? Alle richieste di commento Frontex ha prima risposto: “Nessun contatto con la guardia costiera libica”. Per poi ammettere: “Ogni volta che un aereo o un’imbarcazione di Frontex individua un’imbarcazione in potenziale necessità di soccorso, l’Agenzia allerta tutti i centri di soccorso nazionali competenti nelle vicinanze, come richiesto dal diritto internazionale, cioè i centri di coordinamento di Italia, Malta, Tunisia e Libia”.
La versione di quella mattina la fornisce anche Sos Mediterranée: “Alarm Phone (un servizio umanitario di soccorso, ndr) aveva trasmesso una mail al centro di coordinamento di soccorso maltese e italiano, in cui eravamo in copia anche noi, segnalando la posizione di una barca che era in pericolo ed avvertendo che un aereo bianco con una striscia rossa si era avvicinato a loro. Alle 10.15 la Guardia costiera libica ci ha chiamato per informarci che stavano procedendo al soccorso, ordinandoci di cambiare rotta, nonostante avessimo offerto loro assistenza, specificando che a bordo avevamo un’equipe medica, da quel momento in poi li abbiamo persi dalla nostra visuale”.
Frontex fa da palo ai libici – La barca intercettata il 20 gennaio non è l’unico respingimento verso la Libia benedetto dai velivoli di Frontex. “È accaduto due giorni dopo, con la stessa identica dinamica”, riferiscono dall’Ong Sea Watch, “alle ore 5.43 del 22 gennaio Alarm Phone aveva segnalato alle autorità la presenza di una barca di legno che era in pericolo con circa 77 persone a bordo. La posizione dell’imbarcazione era stata localizzata a 33d9N, 12d36E, mentre Osprey 3, un altro degli aerei di cui dispone Frontex, era stato tracciato a partire dalla posizione 33d21N, 12d37E, dunque, in prossimità della barca di migranti da salvare”.
Sebbene l’Agenzia sostenga la sua estraneità, i testimoni ricordano che “quella mattina l’aereo di Frontex ha seguito uno strano percorso, dopo essere stato presente da subito sulla scena del naufragio, ha cambiato rotta, prima dirigendosi verso Tripoli, poi è ritornato sulla scena, ricomparendo poi a nord in direzione dell’aeroporto di Malta. Più o meno negli stessi minuti in cui la motovedetta libica Fezzan aveva intercettato la barca in pericolo”.
Stessa scena il 7 febbraio scorso: questa volta un secondo aereo, Eagle 1, tracciato in posizione 33d38N, 12d27E, vicino a una barca di legno blu che era in pericolo con 35 persone a bordo. “Eagle 1 dapprima aveva cambiato rotta verso Tripoli, poi, era tornato indietro verso la posizione della barca naufragata, infine, era stato localizzato dal nos verso l’aeroporto di Malta. Negli stessi istanti, la barca di legno blu è andata in fiamme, e i loro passeggeri si trovavano già all’interno della motovedetta Fezzan che li stava riportando in Libia”, riferiscono i testimoni. Sono le prove dei respingimenti appaltati a terzi verso un “paese non sicuro”, pratiche vietate da tutte le convenzioni internazionali, e che avvengono con la complicità politica dell’Unione europea.
D’altronde, lo stesso direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, nel corso di una audizione dello scorso aprile alla Commissione Libertà civili e affari interni del Parlamento europeo, non ne aveva fatto un mistero della presenza sulla scena libica degli aerei dell’Agenzia. Quasi a fare da palo in cielo aspettando l’arrivo della guardia costiera libica in mare.
Leggeri, infatti, aveva dichiarato: “La pandemia di Covid-19 ha aumentato le difficoltà, in quanto c’è minore capacità da parte della guardia costiera libica di individuare le partenze”. E soprattutto, aveva riferito ai parlamentari europei, “vorrei mettere in risalto che abbiamo dispiegato i mezzi aerei di Frontex e che lavoriamo individuando le imbarcazioni mentre sono ancora nella zona di ricerca e soccorso libica. Il nostro approccio è quello di informare tutti i centri di coordinamento marittimi di entrambe le sponde del Mediterraneo per poter inviare squadre in mare”.
Crimini contro l’umanità – Una comunicazione presentata qualche tempo fa dai giuristi Omer Shatz e Juan Branco alla procura della Corte penale internazionale ha sollecitato i giudici ad aprire un’indagine sulle eventuali responsabilità penali dei vertici dell’Unione europea e dei suoi stati membri “per crimini contro l’umanità commessi ai danni di persone migranti nel Mediterraneo e in Libia, dal 2013 fino ad oggi”. Nella comunicazione si ipotizza la responsabilità dei leader europei “nell’attacco esteso e sistematico ai danni delle popolazioni di civili stranieri in fuga dalla Libia”. Perché, si legge, “tale attacco è stato finalizzato a contenere i flussi migratori diretti verso il continente europeo, e sarebbe stato perpetrato attraverso l’ideazione e l’attuazione di politiche attuate in due periodi distinti”. Secondo la denuncia presentata dai giuristi Omer Shatz e Juan Branco, infatti, “a partire dal 2015 l’azione dei leader europei sarebbe stata guidata da una seconda e diversa policy, avente come oggetto la creazione di un sistema volto ad intercettare e trasferire forzatamente in Libia i migranti in fuga dal paese attraverso il Mediterraneo, nella consapevolezza che una volta sbarcati sarebbero stati esposti ad un elevato rischio di divenire vittime di gravissimi reati tra cui omicidi, torture e violenze sessuali”.
La politica dell’esternalizzazione dei respingimenti è sotto accusa anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Un ricorso è stato presentato dai legali dall’Associazione giuristi per l’immigrazione (Asgi) contro il governo italiano. I fatti contestati sono avvenuti il 6 novembre 2017. Quel giorno ci fu una operazione di salvataggio di cento persone al largo delle coste libiche: 40 di loro tra i sopravvissuti al naufragio furono portati in Libia da una motovedetta, “strappati” alla nave della Ong Sea Watch che li aveva soccorsi.
I giuristi di Asgi ritengono per questo che l’Italia abbia violato la Convenzione europea dei diritti umani. “Le operazioni sono state coordinate a distanza dall’Imrcc (centro di coordinamento e soccorso), con base a Roma, che ha segnalato la presenza dell’imbarcazione in difficoltà sia alla Sea Watch che alla Guardia costiera libica, mentre non è chiaro se quest’ultima abbia poi assunto volontariamente il comando operativo o se l’abbia fatto su indicazione dell’Italia. Sulla scena dell’incidente, inoltre, era presente anche un elicottero della Marina militare italiana”. Secondo i giuristi “è il comportamento spregiudicato della guardia costiera libica, che ha agito senza riguardo alcuno per la vita dei migranti, non ha prestato immediato soccorso ai naufraghi, ma anzi ha attuato manovre azzardate e pericolose per la loro incolumità…ha ostacolato il lavoro dei volontari della Sea Watch, gettando loro oggetti di ogni tipo, ha percosso più volte i migranti a bordo ed è poi ripartita lasciando una persona agganciata alla scala esterna della nave e fermandosi solo dopo ripetuti comandi provenienti dall’elicottero della marina militare italiana”.
Questo episodio, però, su cui è tuttora concentrata l’attenzione della Corte di Strasburgo, non è stato un avvenimento isolato. Si è passati dai respingimenti attuati delle autorità italiane verso la Libia durante l’era Gheddafi, all’affidamento di tali pratiche (“pull back”) alla guardia costiera libica (foraggiata con i soldi europei) che intercetta i migranti per ricondurli nei centri di detenzione. Un meccanismo raffinato di respingimento, che usa strategie più sottili. È così che, ad esempio, l’Italia ha aggirato una sentenza del 2012 della Corte europea dei diritti dell’uomo che l’aveva condannata per il respingimento collettivo attuato ai danni di undici cittadini somali e tredici eritrei.
La catena di comando – L’evoluzione del meccanismo è spiegato in un inedito report interno, intitolato Monitoring Mechanism Libyan Coast and Navy, redatto da EunavForMed-Operazione Sophia, la missione navale europea contro il traffico di esseri umani che aveva il suo quartiere generale a Roma all’interno dell’aeroporto di Centocelle, e che è stata guidata dall’ammiraglio Enrico Credendino dal 18 maggio del 2015 al 20 febbraio dello scorso anno.
Nel documento di monitoraggio rimasto finora riservato, si rileva “un miglioramento delle capacità del personale libico che è stato formato da EunavForMed”. La capacità di pattugliamento è aumentata grazie “al supporto tecnico fornito dalla marina militare italiana in conseguenza del trattato bilaterale firmato dai due paesi (Memoradum Italia-Libia,ndr)”.
Nel monitoraggio dei primi mesi dagli accordi stipulati tra Italia e Libia si fa riferimento anche a presenze europee nelle sale operative libiche, utili a “valutare meglio la professionalità della guardia costiera e, si spera, anche di migliorare il rapporto con le Ong”.
Sul rapporto tra le navi umanitarie e i libici si legge anche di un incontro che si è tenuto a Tunisi tra l’ammiraglio Enrico Credendino e il comandante della guardia costiera libica, Commodoro Abdalh Toumia, durante il quale quest’ultimo aveva sottolineato “le enormi difficoltà incontrate dalle motovedette quando intervengono nelle operazioni di soccorso e devono agire come “on scene coordinator” alla presenza di navi delle Ong”. E nell’incontro si era parlato proprio dell’evento del 6 novembre del 2017 per cui tuttora pende un ricorso contro il governo italiano davanti alla Cedu, rispetto al quale l’ammiraglio Credendino aveva sottolineato: “In questi casi la sicurezza dell’equipaggio e dei migranti soccorsi potrebbe essere messa a rischio, perché è risaputo che quando entrambi gli attori sono sulla scena, i migranti non vogliono essere salvati dalla guardia costiera libica, perché ovviamente non vogliono tornare in Libia”.
Il rapporto svela anche in che modo avvengono una parte delle comunicazioni. Aspetto che chiama in causa direttamente l’Italia: per comunicare con Eunavformed i libici usano il sistema “Smart”: un’infrastruttura sicura realizzata dalla Marina italiana. Tanto che, dopo il memorandum firmato dal governo Gentiloni con Minniti ministro dell’Interno, la formazione per la guardia costiera libica dell’utilizzo di questo sistema di comunicazione è entrato nelle priorità, come si legge nello stesso documento. L’ultimo tassello del mosaico. Eppure tutti negano le complicità nei respingimenti. Non hanno torto. Non si tratta di complicità, ma di un progetto politico chiaro che mette d’accordo i partner europei: “Rispedirli a casa loro” con discrezione e riservatezza.
Giovanni Tizian e Gaetano De Monte
da Il Domani