Il Tribunale di Roma, investito della convalida del trattenimento in Albania di sette richiedenti asilo, ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea di chiarire se la legislazione italiana sui “paesi sicuri” sia conforme al diritto europeo. Non si vede cosa ci sia, in ciò, di pretestuoso. Ad essere sorprendente è, piuttosto, l’arroganza del Governo, che pretende di imporre la sua volontà anche a scapito delle regole.
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Non c’è nulla di pretestuoso nei quesiti posti alla Corte di giustizia dell’Unione europea dal Tribunale di Roma in merito al trattenimento in Albania del secondo gruppo di sette richiedenti asilo. Ciò che colpisce in questa storia – che molti, sbagliando, vedono come una battaglia tra poteri dello Stato a colpi di cavilli legali su temi astrusi – è l’atteggiamento arrogante dell’esecutivo, che pretende di imporre la sua volontà come se le regole che limitano il potere delle istituzioni non esistessero e tutto fosse a discrezione della maggioranza. I quesiti posti alla Corte dal Tribunale di Roma sono chiari e precisi: il concetto di paese d’origine sicuro è un dato liberamente determinabile dalla politica (come vorrebbe il Governo italiano) o una nozione giuridica definita dalla Direttiva 2013/32/UE?
Il Tribunale di Roma ha disposto ben quattro “rinvii pregiudiziali” alla Corte di giustizia perché la procedura in esame prevede, oltre al trattenimento, una «particolare celerità del procedimento, con conseguente compressione dei diritti della difesa, la possibilità di dichiarare la domanda manifestamente infondata, l’esclusione dell’effetto automaticamente sospensivo del ricorso giurisdizionale avverso la decisione negativa della Commissione territoriale». Ciò comporta la possibilità di sollevare una questione pregiudiziale anche nel corso del giudizio di convalida del trattenimento, essendo «funzionale a garantire un ricorso pieno ed effettivo».
Con il primo rinvio il tribunale osserva che, mentre nel decreto ministeriale del 7 maggio 2024 veniva previsto un elenco di Stati terzi ritenuti Paesi di origine sicuri sulla base di schede informative su ognuno di essi, con il decreto legge 23 ottobre 2024, n. 158 il legislatore ha avocato a sé sia la disciplina generale delle modalità e dei criteri di tale designazione sia la designazione stessa. Ciò premesso, chiede alla Corte se è coerente con il diritto dell’Unione il fatto «che la designazione dei Paesi di origine sicuri sia affidata a un atto normativo primario, avente forza e valore di legge».
Con il secondo rinvio il tribunale mette in luce che il decreto legge emanato dal Governo dopo la mancata convalida dei primi trattenimenti «non riporta né le specifiche fonti informative utilizzate né la loro provenienza; e neppure vi fa riferimento in modo preciso per consentire di risalire a quelle fonti e di esaminarne il contenuto e non permette, quindi, al richiedente asilo di contestarne, e al giudice di sindacarne la provenienza, l’autorevolezza, l’attendibilità, la pertinenza, l’attualità, la completezza, e comunque in generale il contenuto». Ciò, ad avviso del tribunale determina «una significativa limitazione del carattere effettivo della tutela giurisdizionale» e pone il problema se, nel designare un Paese terzo come sicuro, uno Stato UE possa, senza violare il diritto dell’Unione, non esplicitare «il metodo di valutazione e i criteri di giudizio adoperati in concreto, nonché le fonti dalle quali ha tratto le pertinenti informazioni su quel determinato Paese».
Con il terzo rinvio il tribunale torna sulla questione dei poteri spettanti al giudice nella valutazione della correttezza della designazione di uno Stato terzo come Paese di origine sicuro, ovvero sul punto «se il giudice possa avvalersi di proprie autonome fonti informative qualificate per svolgere quell’analisi e valutazione concreta che gli viene richiesto di attuare sulla base dell’interpretazione del diritto dell’Unione che la stessa Corte europea ne ha dato con la sentenza del 4 ottobre 2024». Di qui la richiesta se il diritto UE imponga agli Stati membri di attribuire ai giudici «il potere-dovere di utilizzare tutte le informazioni ad essi disponibili, provenienti da fonti qualificate, per compiere una valutazione effettiva e attuale della correttezza della qualificazione dello Stato terzo come Paese di origine sicuro, indipendentemente dal fatto che l’autorità che lo ha così designato abbia reso note le fonti e le informazioni su cui ha basato le proprie valutazioni oppure no».
Con il quarto rinvio il tribunale, riferendosi alle conclusioni della citata sentenza della Corte europea del 4 ottobre, ritiene che «un Paese terzo non possa essere considerato sicuro se tale non è per gruppi di individui, sia che ciò dipenda dalla porzione di territorio in cui si trovano o potrebbero trovarsi […] sia che dipenda dalla categoria di soggetti alla quale appartengono». La valutazione del tribunale è di grande importanza laddove evidenzia che «l’applicazione di una procedura accelerata appare incompatibile con l’esistenza di situazioni di persecuzione, discriminazione e maltrattamento come quelle relative a categorie di persone: tali situazioni, infatti, emergono normalmente soltanto all’esito di un’approfondita istruttoria sulla situazione di ogni singolo richiedente protezione, possibile esclusivamente nelle procedure amministrative ordinarie di esame della domanda di protezione, che permettono tempi adeguati di analisi e valutazione della posizione individuale del richiedente e sono soggette eventualmente ad impugnazione attraverso ricorsi in sede giurisdizionale esperibili entro termini di decadenza non stringenti». Muovendosi su una linea di pensiero non molto dissimile da quella del Tribunale di Bologna (che ha anch’esso effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea), il Tribunale di Roma chiede dunque alla Corte se non sia in contrasto con il diritto europeo una disposizione che designi un Paese di origine come sicuro se esso non può essere considerato tale per determinate categorie di persone.
Il lettore mi scuserà per l’inevitabile ricorso a qualche tecnicismo, ma da quanto sopra esposto coglierà come i quesiti interpretativi posti dal Tribunale di Roma siano chiari e precisi e che nell’ordinanza che a molti ancora fa scandalo non ci sia nulla di pretestuoso. Non a caso, del resto, nessuno Stato UE ha, ad esempio, inserito tra i paesi sicuri l’Egitto, dove è stato torturato ed ucciso Giulio Regeni (e dove migliaia di persone vengono fatte sparire o torturate nelle carceri come ricorda anche la storia di Patrick Zaki). A nessuno verrebbe in mente una simile scelta, tranne che al Governo italiano, così inadeguato a guidare quella stessa Repubblica la cui Costituzione (art. 10 comma 3) prevede il diritto d’asilo come diritto fondamentale della persona. Un Paese come la Nigeria, dilaniato dai conflitti interni, compariva anch’esso tra i paesi di origine sicura fino a poco tempo fa, quando è stato depennato grazie alla richiamata sentenza della Corte di giustizia. Non avrebbe però mai dovuto comparire nell’elenco, lo stesso in cui ancora c’è la Georgia, dove ben due regioni secessioniste, l’Ossezia del nord e l’Abkhazia, con l’appoggio di Mosca, sono di fatto separate dal resto del Paese. Compariva – e c’è tuttora – nella lista italiana il Bangladesh dove sono in corso repressioni politiche che hanno prodotto centinaia di morti, specie tra gli studenti. E si potrebbe continuare.
La vicenda – come si vede – è molto pericolosa: non solo per gli stranieri che chiedono asilo ma anche per noi e per le nostre istituzioni.
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