Migranti in provincia di Cosenza, ancora un report della vergogna: “Niente medicine, vestiti o scarpe”
Un dodicenne implora di essere iscritto a scuola per imparare l’italiano mentre chi si ribella viene sbattuto fuori dalla polizia.
Ispezione nell’ambito della campagna LasciateCIEntrare in provincia di Cosenza. Due i Centri di Accoglienza Straordinaria visitati, entrambi ubicati nel Comune di Amendolara. “Sono i dannati della nostra terra. Percorrono autostrade nascosti nelle pance degli autoarticolati, navigano mari in tempesta, scompaiono nelle acque buie di un cimitero chiamato mediterraneo. Molti – ricordano nel report gli attivisti della delegazione che ha analizzato le due strutture del cosentino – dimorano all’interno dei non-luoghi dell’accoglienza dei quali molto spesso abbiamo denunciato il malaffare. E’ strano l’universo dei centri di accoglienza temporanea. Ci si può imbattere in imprenditori ostili, operatori impreparati, gestori arroganti o intrallazzini. Ad Amendolara, antichissimo centro di 3000 abitanti della provincia di Cosenza lo spostamento di masse consistenti di popolazione ha segnato la vita del paese dei mandorli. Abitata sin dal neolitico, passando dagli enotri, dagli achei e dalla dominazione romana, Amendolara è, dunque, la risultanza di mescolanza di culture. A maggior ragione fanno gelare il sangue i racconti di vita quotidiana all’interno del piccolo centro dell’alto Jonio da parte di alcuni richiedenti asilo con i quali ci siamo intrattenuti a parlare.
“La gente ha paura di noi”, affermano, “a molti facciamo schifo, capita che qualcuno sputi a terra quando si trova a passare vicino a noi. Se entriamo in chiesa la domenica e proviamo a sederci vicino ad altri fedeli, questi si scansano da noi”. A conferma di quanto riferito dai migranti, leggiamo sui quotidiani locali che nel centro vige una sorta di coprifuoco per cui, vox populi, è rischioso passeggiare per le strade del paese dopo le 21.00 perché “branchi di extracomunitari” sono pronti ad assaltare i malcapitati. Li abbiamo incontrati questi “branchi”, ci siamo soffermati un intero pomeriggio a parlare con loro, ad ascoltare le loro storie, a leggere sui loro corpi i segni delle violenze subite negli inferni delle carceri libiche. Abbiamo visto occhi spaventati di ragazzi sbarcati in Italia qualche mese fa, abbiamo ascoltato voci di uomini che ci dicono che è meglio morire in mare che vivere all’interno di terre insanguinate dalla violenza, meglio morire in mare che approdare in un paese che nega la possibilità di ricucire esistenze annientate dalla sofferenza e dal dolore.
da http://www.quicosenza.it/