Dal governo a coldiretti i lavoratori stranieri sono necessari per i raccolti. Molti di loro sono chiusi nelle baraccopoli e nelle tende in prossimità dei campi dove sta crescendo la paura. Quelli impiegati nel settore agricolo e alimentare sono circa 345mila. Emanuele Nannini (Emergency). «I campi per migranti sono bombe a orologeria: non consentono il distanziamento sociale né le più basilari norme igieniche o i tamponi»
Non li vedo più, come fossero spariti all’improvviso. È dall’inizio dell’epidemia e delle disposizioni più stringenti del governo che non li vedo più agli incroci delle strade comunali dove sostavano al mattino con le loro biciclette aspettando che passasse il caporale a raccoglierli e li portasse in campagna, al lavoro.
Anche loro #restanoacasa. Solo che la loro “casa” è la baraccopoli di San Ferdinando.
Un mucchio di tende blu dove sono rinchiusi in cinquecento, otto per tenda, con una decina di moduli di servizi igienici.
Il lavoro non c’è più, l’agricoltura è ferma. Anche chi ha un regolare contratto ma lavora magari in un altro comune più distante viene continuamente fermato dai posti di blocco e rimandato indietro.
Senza lavoro non c’è paga, anche di fame, ma pur sempre una sopravvivenza. E poi, il terrore del contagio. Qui, se si ammala uno diventa un lazzaretto. Una situazione incontrollabile.
È successo in Portogallo. Il contagio di un lavoratore nepalese nelle serre dell’Algarve aveva convinto le autorità a confinare in una scuola ottanta suoi connazionali: molti sono fuggiti temendo di essere messi su un aereo per un rimpatrio forzato. Una situazione così, con persone contagiate fuori da ogni controllo, era ingestibile.
E il governo del Portogallo ha deciso di gestirla, approvando una sanatoria per i richiedenti asilo e per tutti gli stranieri senza permesso di soggiorno che abbiano chiesto di accedere ai servizi sanitari.
Con questa regolarizzazione gli stranieri potranno cercare un lavoro regolare, avere un contratto e accedere a tutti i servizi pubblici e affittare una casa senza ricorrere al mercato nero. L’agricoltura portoghese ha bisogno delle loro braccia.
È quello che dice Coldiretti: ci sono le fragole nel Veronese, la preparazione delle barbatelle in Friuli, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte, gli allevamenti da latte in Lombardia dove a svolgere l’attività di bergamini – quelli che d’estate portano le bestie in alto sui pascoli e d’inverno le tengono nelle stalle – sono soprattutto indiani e poi ci sono i macedoni, quasi tutti pastori.
Dalla frutta alla verdura, dai fiori al vino, ma anche negli allevamenti, in totale – dice Coldiretti – fra stagionali e permanenti sono 345mila i lavoratori stranieri impiegati in agricoltura, per trenta milioni di giornate di occupazione. Dal nord al sud: in Puglia, con l’arrivo imminente delle raccolte di ciliegie, pomodori e uva da tavola sono esplose le prime criticità.
E solo nella Capitanata si concentra il 27,61 percento delle 973mila giornate di lavoro degli immigrati impiegati in lavori stagionali. Parliamo delle cifre ufficiali – chi ha contezza del lavoro nero e irregolare?
A dicembre, con le disposizioni ministeriali sui flussi, le aziende avevano fatto le loro domande e a fine aprile è fissato il “click day”. Si parla di lavoratori in arrivo dall’est Europa – dall’Albania alla Bosnia, dalla Macedonia all’Ucraina – e dall’Africa – dalla Tunisia al Marocco, dal Niger al Sudan – ma anche da luoghi più lontani, l’India, lo Sri Lanka. Solo che, per quanto regolari, dovrebbero scattare le disposizioni di quarantena, e non è semplice farvi fronte – e si perdono giornate preziose, e chi paga?
E bisognerà rispettare condizioni di lavoro particolari, le distanze di sicurezza, i dispositivi, i controlli, gli spostamenti, i luoghi di mensa e di riposo. Un delirio.
E con le notizie che girano per il mondo riguardo l’Italia – il paese più colpito dalla pandemia – verranno ancora? Forse ci vorrebbero degli incentivi – magari trasformare gli arrivi per permessi per lavoro stagionale in permessi di soggiorno per lavoro subordinato. Alcuni avevano pensato di rivolgersi allora agli italiani – pensionati, cassintegrati, studenti – con dei voucher per far arrotondare loro le entrate. Al momento non si registrano successi su questo fronte.
Il ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova c’è andata giù diretta: «Gli immigrati non sono nemici, siamo noi ad aver bisogno di loro». È un buon inizio.
E ha proseguito: «Dobbiamo fare i conti con la realtà. Ci sono i ghetti, pieni di lavoratori arrivati dal sud del mondo che lavorano nelle nostre campagne in nero. Lì sta montando la rabbia e la disperazione, se non si fa qualcosa il rischio è che tra poco ne escano e non certo con un sorriso. C’è un forte deficit di manodopera, bisogna mettere anche loro in condizioni di lavorare in modo regolare».
Sembra che sia andata ieri a San Ferdinando, il ministro Bellanova. Ci vuole un bagno di realtà. Qua corriamo il rischio di fermare la filiera agro- alimentare – già alcune primizie sono andate a male. E non è – lo è anche – un problema di economia e di declino del paese. Se si ferma la filiera agro- alimentare, che succederà?
Inizia il razionamento, viene distribuita la tessera per i pomodori di Pachino o il radicchio trevigiano? Facciamo i conti con la realtà. Buona parte dell’agricoltura è lavorata in nero, e gli immigrati irregolari sono sotto il ricatto di paghe di fame e condizioni drammatiche di vita: di loro ci si ricorda solo per alimentare campagne d’odio, per lanciare allarmi sulle invasioni, per parlare di irrobustire e militarizzare i nostri confini.
Se questa tremenda situazione servirà a trattarli per quello che sono – lavoratori indispensabili da regolarizzare – avremo fatto tutti un passo avanti.
Come civiltà.
Lanfranco Caminiti
da il dubbio
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«I più vulnerabili ormai sono esclusi dalle cure»
Un ambulatorio bombardato a Tripoli lunedì scorso. Solo a marzo 27 strutture sanitarie danneggiate in Libia per la vicinanza alla linea degli scontri, mentre la popolazione fa i conti anche con la pandemia e i migranti continuano a rimanere chiusi nei campi di detenzione: «Ci abbiamo lavorato per più di dieci anni, la situazione è tragica. Le due fazioni hanno inasprito i combattimenti, c’è molta pressione su Tripoli, il paese è nel caos» spiega Emanuele Nannini, vicedirettore del Field operations department di Emergency.
È possibile contenere il Covid-19 a Tripoli con la guerra civile in corso?
Un paese fragile come la Libia si avvicina al baratro. La guerra fa saltare i regolatori sociali e le tutele, tutti i paesi in conflitto hanno fasce di popolazione vulnerabile che non hanno più accesso ai servizi, sia per i rischi legati agli spostamenti durante i combattimenti sia perché le prestazioni cessano. La pandemia, la limitazione della circolazione e l’impossibilità di far arrivare materiali fa sì che i più vulnerabili si trovino esclusi da qualsiasi assistenza.
I migranti continuano a partire.
La Sanità con la pandemia non regge più. Le notizie che abbiamo dall’Afghanistan, dal Sudan ci dicono che dei sistemi già fragili collassano completamente. Chi può accedere alle strutture a pagamento va avanti, gli altri sono esclusi del tutto dalle cure. In Afghanistan, ad esempio, il 70% della popolazione vive in zone rurali, la gran parte già faceva fatica a curarsi perché doveva fare lunghi viaggi per arrivare a presidi di livello medio. Una volta arrivati era complicato accedervi per i combattimenti, i posti di blocco e le lotte tra fazioni. Con la pandemia molte strutture sono state chiuse oppure sono stati ridotti i servizi e il governo ha messo restrizioni nei movimenti: l’accesso ora è pari a zero. In più molti operatori umanitari sono bloccati e il supporto delle ong sta venendo meno.
Quali difficoltà state avendo?
I paesi in cui operiamo sono chiusi, non riusciamo a portare dentro né a far uscire i nostri sanitari. Man mano che gli aeroporti chiudevano abbiamo chiesto se volevano tornare, più di cento hanno scelto di rimanere e i nostri ospedali sono rimasti aperti. Prima del lockdown abbiamo potenziato gli approvvigionamenti per affrontare la crisi. Altre ong però non hanno più personale in loco o hanno finito le scorte.
La crisi ha fermato i conflitti?
In alcune aree è stata decisa una tregua ma in Libia, Afghanistan, Yemen, Iraq non è accaduto. I feriti continuano ad arrivare, il supporto chirurgico ha la priorità perché una pallottola uccide più velocemente del virus. Andiamo avanti a vista, abbiamo fine giugno come tempo massimo per continuare a operare senza nuovi rifornimenti.
I campi, in Libia come in Grecia, possono reggere all’impatto del Covid-19?
Sono bombe a orologeria. Le condizioni non consentono il distanziamento sociale né le più basilari norme igieniche. Campi formali, creati a opera d’arte, forse posso dare qualche garanzia ma negli aggregati informali è impossibile gestire la situazione. Ma tanto il mondo farà fatica a sapere cosa succede lì dentro, posti dove non si fanno tamponi né test: le persone morivano prima, adesso di più senza che l’opinione pubblica si renda conto del danno umano in corso.
Cosa insegna la pandemia?
Guerre e povertà sono sparite dall’attenzione internazionale. Quando usciremo di nuovo in strada troveremo un mondo che ha lasciato indietro i più deboli. Eppure la lezione è che o stiamo tutti bene o non sta bene nessuno. Il sistema sanitario non deve essere un privilegio per chi se lo può permettere.
Adriana Pollice
da il manifesto