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Migranti, vademecum antirazzista. I commenti ‘cattivisti’ smontati uno per uno

‘Ci invadono’, ‘ci rubano il lavoro’, ‘portano malattie’. Luoghi comuni e disinformazione che inquinano il dibattito pubblico. È necessario partire da dati corretti per ragionare, raccontare, capire la complessità del fenomeno migratorio.

“Ci invadono”, “ci rubano il lavoro”, “portano malattie”. Queste sono alcune delle paure e slogan che si sentono spesso ripetere nel dibattito pubblico sul fenomeno della migrazione. Si smette di guardare i migranti come persone con storie di vita e progetti personali e li si incasella in categorie generiche e disumanizzanti. Alla base di questi pregiudizi vi è una pericolosa generalizzazione fondata sulla stretta correlazione tra aree geografiche, società e culture. E così si fa riferimento a categorie etniche (ad es., i curdi), religiose (il mondo islamico), razziali (l’Africa nera) per associare, ad esempio, gli afgani ai talebani; arabi e africani ai musulmani e, per estensione, ai terroristi islamici; i siriani alla categoria dei rifugiati e tutti gli altri a quella dei cosiddetti migranti economici. Per questo è fondamentale, per la salute della stessa democrazia, partire da dati corretti e da analisi che descrivano la complessità e la portata di un tale fenomeno.

1) “C’è un’invasione”

Dall’inizio del 2015, secondo i dati dell’UNHCR, sono sbarcate in Italia 121mila persone (di cui il 78% uomini, il 12% donne e il 10% bambini). Una cifra che corrisponde allo 0,2% della popolazione italiana. Mario Morcone, capo del dipartimento libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno, intervistato da Redattore sociale, ha spiegato che, proprio basandosi su questi numeri, parlare di emergenza o invasione è sbagliato, aggiungendo inoltre:
Per quanto riguarda gli arrivi i numeri sono esattamente gli stessi dell’anno scorso, ci saranno mille, duemila persone in più, quindi probabilmente arriveremo a fine anno con un bilancio di circa 180mila, 170mila persone sbarcate, in linea […] con la pianificazione che come ministero avevamo già fatto.
Altro dato da considerare è che gran parte delle persone arrivate in Italia non resta ma continua il proprio viaggio (anche dentro le maglie delle organizzazioni di trafficanti di essere umani) verso il Nord-Europa.
Nel 2014, su 170mila arrivi, solo in 66mila hanno fatto richiesta di asilo. Attualmente in Italia, nei centri di accoglienza, ha spiegato il ministro dell’Interno, «ci sono 95mila migranti», cioè lo 0,16% della popolazione italiana. Comparando, inoltre, le richieste accettate dallo Stato italiano con quelle degli altri paesi Europei e nel mondo, l’UNHCR specifica che «il numero di rifugiati accolti dall’Italia rimane modesto».
Nel vecchio continente nel 2014 si è registrata la quota record di 626mila richieste d’asilo, ma il nostro paese in media, scrive l’agenzia delle Nazioni Unite, «accoglie un rifugiato ogni mille persone, ben al di sotto della Svezia, con più di 11 rifugiati ogni mille, la Francia (3,5 ogni mille) e della media europea (1,2 ogni mille). In Medio Oriente, il Libano, al confine con la Siria, accoglie circa 1,2 milioni di rifugiati, pari a un quarto della popolazione del paese».
A livello mondiale l’86% dei rifugiati del mondo trova accoglienza nei paesi vicini a quelli di fuga. Come sottolinea l’ultimo rapporto sulla protezione internazionale del 2014 – di Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo per rifugiati), Anci (Associazione nazionale dei Comuni italiani), UNHCR, Caritas e fondazione Migrantes –, Pakistan, Etiopia, Sud Sudan e Kenya hanno da soli provveduto a dare asilo a 2,8 milioni di rifugiati, corrispondenti al 24% del totale mondiale, mentre in Europa arriva meno del 10% dei richiedenti asilo.
Scrive, inoltre, Davide Mancino su Wired che «i dati dell’ultimo rapporto sulle migrazioni internazionali dell’OCSE, aggiornati al 2012, mostrano che in Italia la percentuale di stranieri è al 9,4% – più bassa che in Francia o nel Regno Unito, e molto inferiore a Germania e Spagna».
Ma nonostante questi dati, la presenza degli immigrati nel proprio paese, in base a una ricerca condotta da Ipsos Mori nel 2014, viene sovrastimata praticamente ovunque. via The Guardian via The Guardian

2) “Prendono 40 euro al giorno”

Questi soldi non vanno in tasca ai migranti, ma rappresentano i costi giornalieri (vitto, alloggio, pulizia dello stabile e manutenzione) di gestione per persona sostenuti da quelle organizzazioni di cui i comuni – che partecipano al bando Sprar (Sistema di protezione e accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo) – si avvalgono per la gestione dell’accoglienza.
Come previsto dall’ultimo bando 2014/2016, gli enti locali hanno l’obbligo di presentare un piano finanziario che deve essere approvato da una commissione formata da rappresentanti di enti locali (Comuni, Province e Regioni), del ministero dell’Interno e dell’Unhcr.
Le spese di gestione per migrante, valutate in media intorno ai 35 euro pro capite pro die, possono subire delle variazioni da regione a regione, secondo il costo della vita locale e dell’affitto delle strutture. Una piccola quota copre anche i progetti di inserimento lavorativo.
Ai richiedenti asilo viene corrisposto direttamente il cosiddetto pocket money (pari a 2,5 euro giornaliere), utilizzato per le piccole spese quotidiane. Soldi che restano nei Comuni e tornano sul territorio, spiega Daniela Di Capua, direttrice dello servizio centrale Sprar, intervistata da Internazionale: «Se togliamo i 2,5 euro circa di pocket money, restano più di 32 euro (il 92 per cento del totale) a migrante che servono, prima di tutto, per coprire la spesa del personale: cioè per pagare gli stipendi, i contributi e i contratti degli operatori che lavorano nei centri, e che sono soprattutto giovani italiani.
Una parte è spesa per l’alloggio e per il mantenimento delle strutture, che alcune volte sono di proprietà dei comuni e vengono ristrutturate e altre volte sono prese in affitto da privati della zona. Infine, una parte serve a pagare i fornitori, da quelli di generi alimentari alle farmacie fino alle cartolerie».
Inoltre, aggiunge Di Capua, «nel caso dello Sprar sono 400 circa i comuni direttamente coinvolti nei progetti, ma secondo i nostri calcoli a beneficiarne sono almeno il triplo, cioè oltre mille. Questo perché spesso gli enti territoriali fanno accordi con comuni limitrofi per gestire meglio l’accoglienza. Stiamo portando avanti un monitoraggio proprio su questo e dai primi risultati emerge che il flusso finanziario ha un impatto positivo su un territorio ampio».

3) “Ci rubano il lavoro”

Come riporta il V rapporto “I migranti nel mercato del lavoro in Italia” del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, nel 2014 «la variazione positiva del numero di occupati (pari a +0,4% rispetto al 2013) è da attribuire esclusivamente alla componente straniera», visto il calo di quella dei cittadini italiani.
Un fenomeno non nuovo, in quanto – continua lo studio – negli ultimi 9 anni, «seppur con lievi incrementi, la forza lavoro straniera ha controbilanciato l’emorragia occupazionale che ha investito quella italiana». Ma la crisi economica ha colpito duramente anche i lavoratori stranieri.
Prima di tutto, il tasso di occupazione dei lavoratori stranieri spiega il report del Ministero, «pur mantenendo performance migliori rispetto alla controparte italiana, ha conosciuto una costante contrazione»: «In 5 anni il valore dell’indicatore nel caso dei cittadini comunitari è calato di 5,5 punti (68,1% nel 2010 a fronte del 62,6% del 2014), così come è calato il tasso degli extracomunitari di 4,1 punti (dal 60,8% al 56,7%); riduzioni molto più ampie rispetto ai -0,8 punti in cinque anni rilevati per gli occupati italiani». In contemporanea, il tasso di disoccupazione degli stranieri è cresciuto in maniera costante tra il 2010-2013, «per poi rallentare e decrescere nel 2014», all’opposto di quello italiano, che nell’anno precedente al 2015 ha raggiunto il 12,2% rispetto all’11,6% del 2013.
Per un quadro più completo è necessario però specificare che, per quanto riguarda gli stranieri la domanda del sistema economico-produttivo italiano «è pressoché schiacciata su professionalità low skills»: più del 70% dei lavoratori stranieri lavora, infatti, come operaio.
Di conseguenza il salario è basso e molti stranieri sono costretti a portare avanti due lavori, con una percentuale maggiore (2,2%) di quella degli italiani (1,2%). Inoltre – continua il rapporto del Ministero – il costo della manodopera straniera è basso: «fatti 100 i dipendenti Ue ed Extra Ue, poco meno del 40% percepisce un salario fino a 800 euro (nella medesima classe gli italiani sono il 15,2%)».
In più, a parità di qualifica ci sono differenze sostanziali a seconda della cittadinanza: «prendendo in esame la qualifica di operaio, il 22,5% degli italiani percepisce meno di 800 euro mensili, a fronte del 41,2% dei lavoratori stranieri comunitari e del 40,6% di quelli extracomunitari».
Su questa disparità retributiva si fonda il timore di dumping salariale e di concorrenza tra lavoratori italiani e stranieri. Ma, la questione è molto complessa.
Come spiegato in un saggio della Banca D’Italia pubblicato nel 2012 che analizza 15 anni di immigrazione in 15 Paesi d’Europa: «Secondo la recente letteratura economica, l’immigrazione non avrebbe effetti negativi sui lavoratori del paese ospitante, in termini né di tassi di occupazione né di livelli retributivi». Anzi, scrivono gli autori del testo, che «sulla base dell’analisi empirica dei dati dell’indagine sulle forze di lavoro dell’Unione europea per il periodo 1996-2010», un aumento della quota di immigrati causerebbe una maggiore specializzazione in mansioni complesse per i lavoratori del paese ospitante e che, grazie a tale riallocazione, questi ultimi avrebbero un incremento delle retribuzioni medie pari allo 0,7%.
Nel caso specifico dell’Italia, secondo uno studio del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) dal titolo “Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano” (2012), «non ha consistenza» l’ipotesi che l’immigrazione determini la perdita di lavoro da parte degli italiani o che abbia un effetto negativo sulle loro retribuzioni. «La presenza immigrata – si legge nella sintesi del report – non ha un ruolo significativo nell’influenzare la probabilità per un lavoratore italiano di perdere l’occupazione entrando nella disoccupazione. Non c’è un concorrenza».
Qualche effetto, non rilevante però dal punto di vista quantitativo – specificano gli autori dello studio –, si può ritrovare invece «in termini di probabilità di ingresso nell’occupazione per i disoccupati».
Inoltre, spiega ancora lo studio del Cnel, per quanto riguarda le retribuzioni dei lavoratori italiani «non si rileva un effetto spiazzamento significativo ricollegabile alla presenza di immigrati sul territorio». Dato ribadito nello studio della Fondazione Leone Moressa,
“Il valore dell’immigrazione in Italia”, in cui si legge che secondo il CRELI (Centro di ricerca per i problemi del lavoro e dell’impresa) «l’immigrazione non ha un effetto significativo sulle retribuzioni, ma invece esiste un elevato gap tra le retribuzioni degli italiani e degli stranieri a sfavore di quest’ultimi», dovuto alle basse qualifiche ricoperte dagli immigrati e alle loro difficoltà negli avanzamenti di carriera. Evidenzia il report, inoltre, che «ad emergere con crescente preoccupazione è la dualità del mercato del lavoro e l’etnicizzazione di alcune professioni».
Inoltre, secondo la ricerca “MIPEX 2015. Migrant Integration Policy Index”, l’Italia presenta criticità rispetto agli altri paesi europei riguardo l’inserimento dei migranti nel mondo del lavoro.
Come si legge nei risultati della ricerca, «da un lato, numerosi giovani migranti non risultano né inseriti nel mondo del lavoro né inquadrati in un percorso di formazione, dall’altro c’è invece il problema opposto, ossia, non si riesce a soddisfare l’alta formazione degli immigrati, che continuano a svolgere lavori che non sempre rispecchiano il loro livello di studio».
Gli immigrati soffrono, infatti, di una “eccessiva” istruzione – come mostrato da un’indagine dell’Istat – rispetto al livello che viene richiesto dal lavoro svolto. Ciò provoca una segmentazione del mercato del lavoro che coincide con un’imperfetta e parziale assimilazione economica degli immigrati, e che in parte è dovuta a fenomeni di discriminazione. Ma a fronte di queste disomogeneità e criticità, i lavoratori stranieri hanno un impatto benefico sull’economia italiana.
Come si legge nel rapporto del ministero dell’Interno, gli effetti potenziali dell’immigrazione sono numerosi, dai prezzi dei beni di consumo e delle abitazioni, alla fruibilità dei servizi pubblici, dall’integrazione culturale ad altri ambiti dell’economia.
In termini di ricchezza nazionale, scrive il Sole 24 ore gli stranieri occupati, che nell’ultimo anno hanno raggiunto i 2,3 milioni, in aumento del 5% rispetto all’anno precedente, «hanno contribuito alla produzione di circa 123 miliardi di euro di valore aggiunto, ovvero l’8,8% della ricchezza nazionale complessiva».
Inoltre, come calcolato dalla Fondazione Leone Moressa, il saldo tra spesa pubblica e tasse pagate dagli stranieri è positivo, per un valore di 3,9 miliardi di euro. Ulteriore beneficio, secondo Il “V Rapporto Idos su Imprese e Immigrazione” (2015), arriva dalla crescente diffusione dell’iniziativa imprenditoriale immigrata, che, nel 2014 ha bilanciato la lieve ma progressiva contrazione della base imprenditoriale autoctona, duramente provata dalla crisi. Infine, altra questione (complessa) è quella del lavoro nero, che gli ultimi dati del ministero del Lavoro danno in crescita rispetto al 2014.
Secondo il rapporto “Il lavoro sommerso e irregolare degli stranieri in Italia” (2014) dell’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) mancano leggi adeguate a contrastare il binomio irregolarità lavorativa clandestinità, sia a livello europeo che nazionale. «Il fatto di essere stranieri – si legge nel report – rende questi soggetti (già socialmente vulnerabili perché non contrattualizzati) ancora più deboli, espondendoli a gravi violazioni della dignità e dei diritti individuali e a forme di sfruttamento a livello di retribuzioni, di condizioni di sicurezza, di riconoscimento delle tutele a disposizione, come quelle legale e sanitaria».
L’istituto ha cercato di mappare anche i profili di queste persone (intervistandone 3000 in sei Regioni e quindi non rappresentativi statisticamente dell’intera popolazione degli immigrati). I risultati hanno evidenziato che l’irregolarità riguarda prevalentemente giovani tra i 25 e i 34 anni, provenienti da paesi extracomunitari (il 55% degli intervistati dall’Africa), giunti da poco in Italia e con livello di istruzione bassa. Secondo la ricerca, inoltre, più di due terzi degli irregolari è impiegato in professioni non qualificate (per l’esattezza il 72,6%), a differenza del 48,2% dei regolari.
La “legge Rosarno”, approvata nel 2012 dal governo Monti – che recepisce la Direttiva 2009/52/CE – era stata scritta proprio per contrastare lo sfruttamento di stranieri irregolari, con pene maggiori nei confronti dei datori di lavoro.
Ma la legge non è riuscita a ottenere i risultati auspicati. Un fallimento che Amnesty international ha dimostrato a due anni dalla sua applicazione: «i criteri […] della legge hanno gravemente compromesso la possibilità di immigrati irregolari di accedere alla giustizia e alla piena riparazione, cui avrebbero diritto sulla base degli standard internazionali».
A seguito delle morti di tre braccianti (due stranieri e un’italiana) nel luglio scorso nei campi pugliesi, il ministro delle Politiche Agricole e Forestali, Maurizio Martina ha annunciato una piano di contrasto al capolarato. Un problema che coinvolge quasi tutte le regioni d’Italia e riguarda, non solo gli stranieri irregolari, ma anche immigrati con regolare permesso di soggiorno, rifugiati e donne italiane che, racconta Raffaella Cosentino in un’inchiesta su laRepubblica, vengono prese perché «più affidabili, ma soprattutto più “mansuete” delle lavoratrici straniere, protagoniste in passato di proteste e denunce».
Il rischio di questa situazione, sempre più concreto, è che si alimenti una continua guerra tra poveri, senza diritti e garanzie.

4) “Dormono in hotel di lusso”

I migranti giunti in Italia non dormono in hotel a 5 stelle con piscina, ma, in attesa che la loro richiesta d’asilo venga esaminata, alloggiano in alberghi, b&b o appartamenti affittati ad hoc.
Si tratta di strutture ricettive di solito non propriamente dedicate all’accoglienza, utilizzate dai prefetti come Centri per l’Accoglienza Straordinaria (Cas) in situazione di carenza di posti nei Centri d’Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara).
I gestori di tali strutture firmano una convenzione con la prefettura locale, che li impegna a dare assistenza a richiedenti asilo e minori non accompagnati con un compenso giornaliero di 30/35 euro per ciascuna persona ospitata.
Le condizioni di soggiorno non sono così ottimali come si potrebbe immaginare quando si pensa a un albergo.
Spesso si fa ricorso a sistemazioni di fortuna prive delle adeguate strutture igieniche e di sicurezza.
Come a Castelfiorentino, dove 36 persone sono state ospitate in una casa colonica fatiscente, lontano dal centro abitato e in aperta campagna.
O a Ragusa, dove le brandine per gli ospiti sono state collocate sulle piste da ballo di un night club in disuso.
O a Portogruaro, dove è stata utilizzata una palestra scolastica, diventata vivibile grazie all’impegno di volontari di una cooperativa sociale, giovani e anziani.
Anche i servizi forniti molto spesso sono carenti.
Le persone ospitate in queste strutture non hanno bisogno solo di assistenza sanitaria, ma anche psicologica e legale, e chi lavora nei centri, spesso, non ha le competenze per garantire tale supporto. D’altronde, lo schema di convenzione indica solo dei requisiti logistici minimi da soddisfare e non è raro che gli unici operatori presenti siano quelli addetti all’erogazione dei pasti e alla sorveglianza notturna delle strutture.
Con la diffusione a macchia di leopardo di questi luoghi, il controllo capillare appare difficilissimo da garantire.
Tuttavia, come ha affermato in una recente intervista il capo dipartimento immigrazione del ministero dell’Interno, Mario Morcone: «prefetture, agenzie internazionali e ministero stanno cercando di adottare nuovi strumenti per migliorare il monitoraggio e verificare inefficienze ed eventuali situazioni di illegalità».
Più che le condizioni lussuose di soggiorno dei migranti, gli alberghi e gli altri centri di accoglienza straordinaria testimoniano le criticità del nostro sistema d’accoglienza, una cipolla a più strati, dove la straordinarietà di situazioni e strutture diventa ordinarietà, l’emergenza si fa strutturale.
Infine, un migrante, se richiedente asilo o titolare di una protezione internazionale, può finire in un centro Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), e partecipare a uno dei progetti di accoglienza integrata sul territorio.
A differenza dei Cas, gli Sprar non si limitano a dare vitto e alloggio, ma cercano di coniugare le esigenze della comunità locale con i bisogni dei richiedenti asilo, attraverso l’utilizzo di personale altamente qualificato.

5) “Hanno pure il telefonino quindi non sono poveri”

Quest’affermazione si fonda su un corto circuito cognitivo: un migrante (associato alla figura della persona sul barcone senza nulla) non può possedere un oggetto come uno smartphone (associato alla categoria dei beni di lusso, simbolo delle tecnologie più avanzate).
Invece, come spiega il New York Times, gli smartphone sono beni di prima necessità per chi fugge da guerra e fame, si sposta tra paesi e continenti diversi e deve geolocalizzarsi per capire dov’è: «Ogni volta che vado in un Paese nuovo – dice Osama Aljasem, docente di musica trentaduenne proveniente dalla Siria – compro una scheda SIM, attivo Internet e scarico le mappe per localizzare dove mi trovo». La richiesta di una connessione wifi non è un capriccio di un rifugiato viziato.
È la via per comunicazioni più lunghe e meno costose con i familiari che sono lontani, come testimoniato dal progetto “Welcome Taranto”, realtà impegnata in Puglia nell’assistenza agli immigrati e che, dotandosi di una rete wifi, ha consentito ai migranti di potersi connettere con i loro parenti: «Ci è bastato chiedere: “di cosa avete bisogno?” – racconta su Chefuturo! uno degli ideatori dell’iniziativa – per capire che l’accoglienza non è solo un pasto caldo.
Abbiamo fatto un’assemblea con i migranti e tra le varie esigenze, quella più concreta emersa con forza era proprio la possibilità di collegarsi a internet».
La tecnologia mobile ha un ruolo sempre più importante: consente comunicazioni satellitari durante le migrazioni per condividere rotte, informazioni su eventuali pericoli, notizie di arresti e movimenti delle guardie di frontiera, consigli sui luoghi migliori dove poter soggiornare e per parlare con i propri cari di rotta in rotta.
Vengono usati anche per monitorare passaggi di denaro e per trasferire le rimesse.
Inoltre, è diffuso il loro uso nell’agricoltura e nell’allevamento, per capire su quali terreni portare le proprie greggi a pascolare, ad esempio, o individuare dove sono localizzati i pozzi per trovare acqua. Aggiunge Alessandro Gilioli, giornalista dell’Espresso: I cellulari in mano agli africani sono, di solito, cinesi o occidentali-rigenerati, ma ormai ci sono anche produzioni locali. Non si va certo a comprarli nei negozi in città (quelli con le vetrine), ma sulle bancarelle o attraverso le varie forme di commercio informale (il cugino dell’amico dello zio della vicina). In questo modo, si riescono a trovare device perfettamente funzionanti e a volte di marca tra i 15 e i 30 dollari.

6) “Con gli immigrati aumenta la criminalità”

Come ha dichiarato di recente il ministro dell’Interno Alfano, «numeri alla mano, è indimostrabile che ci sia stato un aumento dei reati in connessione con l’aumento dei migranti».
Anzi, secondo i dati del Ministero, nei primi quattro mesi del 2015 si è registrato un calo del 15% di reati rispetto all’anno precedente.
A Brescia, ad esempio, la provincia con il più alto numero di immigrati, si è registrato un crollo dei reati del 23% rispetto al 2013.
Negli anni in cui i flussi migratori e il numero dei residenti stranieri in Italia sono incrementati, diverse indagini statistiche evidenziano un calo delle segnalazioni, delle denunce e delle incarcerazioni a carico degli stranieri. Il Dossier Statistico Immigrazione, a cura dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziali (Unar), mostra come nell’arco temporale 2004-2012 si sia assistito a un aumento del 37,6% delle denunce contro gli italiani, nonostante un piccolo calo della popolazione, e del 29,6% di quelle contro gli stranieri, il cui numero di residenti in Italia, però, nello stesso periodo è praticamente raddoppiato, passando da 2.210.040 a 4.387.721.
Nel complesso, l’incidenza sul totale delle denunce contro gli stranieri è scesa dal 32,5% al 31,1%. Come ha dichiarato Franco Pittau, coordinatore del Centro studi e ricerche Idos, a Lettera 43: «L’allarme sui reati degli stranieri non è del tutto infondato, perché si tratta comunque di una devianza sociale rilevante, ma il dato sul loro tasso di criminalità ha una tendenza virtuosa».
«In questi anni, – ha aggiunto Pittau – stiamo assistendo a un aumento degli stranieri, mentre in proporzione il numero di chi tra di loro delinque è in calo».
Inoltre, senza sottostimare la gravità degli aspetti legali riguardanti gli stranieri (le denunce più diffuse riguardano attività legate a traffici illegali: il 47% dei reati loro contestati sono furti e ricettazione, il 44% sequestro di persona), il dossier sottolinea che il 17% delle denunce riguardano lo status (il reato di immigrazione clandestina, che un italiano non può commettere) e che i dati sono sovradimensionati, perché le denunce possono riguardare gli stranieri presenti senza autorizzazione al soggiorno e/o una quota, difficilmente quantificabile, degli oltre 50 milioni di stranieri che pernottano almeno una notte in Italia.
Per quanto riguarda il periodo 2008-2013, la pubblicazione “I dati statistici sull’immigrazione”, a cura dell’Ufficio Centrale di Statistica del Ministero dell’Interno, mostra che il totale dei segnalati (cioè l’insieme dei segnalati, denunciati e arrestati rilevato da tutte le Forze di Polizia) in Italia al 31 dicembre 2013 ammonta a 978.082 unità, il 9,94% in più rispetto al 2008, mentre per i segnalati extracomunitari si può constatare che l’aumento è dell’1,63%, “di molto inferiore alla media totale”.
Se poi si focalizza l’attenzione sul numero dei minori extracomunitari segnalati, la variazione è ancora più bassa, pari al +1,43%. Inoltre, nello stesso periodo di tempo, l’incidenza delle segnalazioni degli stranieri, utile a capire la rilevanza o meno della loro delittuosità rispetto alla totalità delle persone segnalate all’Autorità Giudiziaria per i crimini commessi in Italia, ha registrato una contrazione del 2%, attestandosi a livello nazionale al 31,36% del 2013 rispetto al 33,93% del 2008.
Parlando invece del numero dei detenuti in Italia, dal 2010 a oggi si è registrata una diminuzione generale del 20%. Questo perché, come scrive Adriano Biondi su Fanpage, «è stato fatto un ampio ricorso alle misure alternative alla detenzione, “tentando” di lasciare in carcere solo i soggetti effettivamente pericolosi per la società, ovvero gli autori di crimini efferati e quanti ritenuti di poter reiterare i reati». Tra le misure alternative al carcere la più utilizzata è l’affidamento in prova ai servizi sociali (50,2%), poi la detenzione domiciliare (il 46%) e la semilibertà (3,8%). «Tra gli interventi legislativi di maggiore impatto in tal senso – continua il giornalista di Fanpage – si segnalano il decreto legge 211/2011, che estende la concessione della detenzione domiciliare speciale e agisce sul fenomeno delle cosiddette “porte girevoli” (permanenza di pochi giorni in carcere, approvato dal Governo Monti), la modifica della Bossi – Fini che puniva con la reclusione la violazione dell’ordine di espulsione per gli stranieri irregolari (Governo Letta), il decreto legge 146/2013, che conferma l’esecuzione della pena presso il domicilio e mitiga le pene irrogate per la detenzione di sostanze stupefacenti nell’ipotesi della lieve entità del fatto (Governo Letta)».
Focalizzando l’attenzione sui detenuti stranieri, l’ultimo rapporto ISMU, documenta che nel 2015 su 50.000 carcerati, gli stranieri sono quasi un terzo (il 32,6%), in calo costante rispetto agli anni scorsi: il 3% in meno rispetto al 2014, il 17% in meno rispetto al 2013, circa il 20% in meno rispetto al 2010 (68.000 carcerati) quando la popolazione carceraria ha raggiunto il suo picco dagli anni ‘90. – *aggiornamento del 15 settembre 2015 ore 8:40 – gli immigrati (che corrispondono all’8,2% della popolazione italiana) sono quasi un terzo (il 33%), in calo del 30% rispetto al 2010, passando da 24.954 a 17.304.
Bisogna specificare che i carcerati stranieri, come sottolinea il Dossier Statistico Immigrazione 2014, «sono maggiormente sottoposti alla custodia cautelare e, rispetto ai cittadini italiani, usufruiscono in minor modo di misure alternative alla detenzione». Una disparità – continua lo studio – che «si evidenzia soprattutto rispetto agli stranieri irregolari (che, secondo lo studio [qui la sintesi, qui l’intero rapporto] della fondazione Rodolfo DeBenedetti del 2013, rappresentano circa il 90% dei detenuti stranieri), trattenuti in strutture penitenziarie per l’assenza di radicamento sul territorio e conseguente pericolo di fuga e per le gravi condizioni socio-economiche, che rendono la recidiva molto più probabile».
Inoltre, secondo l’indagine empirica “Legal status and the criminal activity of immigrants”, a cura di Giovanni Mastrobuoni e Paolo Pinotti, l’accesso allo status legale da parte dello straniero riduce il numero dei reati commessi in Italia. Questo per sottolineare come il permanere in uno stato di illegalità influisca sulle probabilità di recidività da parte degli immigrati.
Per tutti questi i motivi, si legge in un rapporto dell’associazione Antigone del luglio scorso, la percentuale dei detenuti stranieri in Italia è al di sopra della media europea di ben 11 punti (in Europa su un totale di 1.737.000 detenuti, il 21% è straniero).

7) “Arrivano e non se ne vanno”

Come mostrano i dati del Viminale (aggiornati al 7 agosto scorso), nel 2015 un irregolare su due è stato rimpatriato. Si tratta per buona metà di immigrati provenienti dall’est Europa: albanesi (3250 rimpatri), tunisini (921), marocchini (680), moldavi (337).
La Polizia di Stato, in un report, spiega che «l’espulsione è il provvedimento madre di allontanamento dello straniero dal territorio nazionale e può essere eseguito mediante: ordine del questore a lasciare il territorio dello Stato entro 7 giorni; accompagnamento coatto alla frontiera italiana; rimpatrio volontario o forzato nel Paese di origine». «Con la Nigeria, la Tunisia e l’Egitto – scrive ancora la Polizia – vi sono degli accordi di riammissione che permettono periodicamente di organizzare dei voli charter», aggiungendo che ne «sono in previsione altri con il Gambia, la Costa d’Avorio e il Senegal».
Riuscire a monitorare il numero di quanti immigrati lasciano l’Italia non è però semplice. I dati ufficiali, si legge in un report della Fondazione Leone Moressa, non riescono a fotografare l’intera dimensione del fenomeno in quanto prendono in considerazione soltanto le cancellazioni dalle anagrafi.
Molti immigrati fanno ricorso, inoltre, al programma di Rientro Volontario Assistito (RVA), una misura finanziata dal 2009 dallo Stato italiano avvalendosi di risorse comunitarie (Fondo Europeo Rimpatri).
Il RVA è una misura che permette ai migranti non comunitari di ritornare in modo volontario e consapevole nel proprio paese di origine in condizioni di sicurezza e con un’assistenza adeguata.
Il programma, infatti, prevede assistenza per l’organizzazione e il pagamento del viaggio e, in alcuni casi, anche il supporto a progetti individuali di reintegrazione sociale e lavorativa nel paese d’origine con l’erogazione di beni e servizi.
Il numero di beneficiari di progetti di RVA è progressivamente aumentato negli anni: dalle 228 persone del 2009-2010 alle 1015 del 2013-2014, per un totale di 3.219 persone in 5 anni.
Oltre la metà di essi era in possesso di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro senza la possibilità di rinnovarlo.
Inoltre, per quanto riguarda la presenza di immigrati irregolari sul territorio italiano, l’Ismu stima che il numero negli anni è calato drasticamente, fino a rappresentare il 6% del totale degli stranieri in Italia (circa 300mila persone).

8) “Ci costano troppo con quei soldi potremmo aiutare gli italiani”

«La percezione dell’opinione pubblica rispetto alla spesa dell’Italia per il mantenimento del sistema di accoglienza per richiedenti asilo appare fortemente squilibrata e sovrastimata», scrivono Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin su Lavoce.info.
I tre studiosi della Fondazione Leone Moressa giungono a questa conclusione dopo aver confrontato la spesa sostenuta in politiche dell’accoglienza da parte degli stati membri dell’UE.
Analizzando i dati di uno studio dell’European Migration Network del 2011 si vede come la spesa sostenuta dall’Italia – pur in un periodo di emergenza sbarchi – non sia particolarmente superiore rispetto agli altri paesi dell’Unione europea.
Ad oggi, la fondazione Ismu calcola che l’accoglienza costa agli italiani circa 11 euro all’anno a testa. Inoltre, sempre secondo i calcoli dell’istituto, l’impatto sui conti pubblici delle due differenti operazioni militari e umanitarie di salvataggio Mare Nostrum e Triton, è stato basso: rispettivamente di 2 euro al mese per cittadino per la prima e 0,50 euro per la seconda.
Ulteriore chiarezza va fatta sulla natura dei fondi. Alcuni, infatti, sono nazionali, altri europei. Come si legge nell’ebook “Le migrazioni internazionali ai tempi della crisi”, per le politiche di inclusione esistono tre fonti pubbliche differenti di finanziamento: i fondi locali ovvero quelli dei bilanci dei Comuni e delle Regioni, i fondi nazionali (decisi a livello centrale) e i fondi europei (assegnati dalla Commissione Europea). Negli anni – scrive Marco Accorinti, ricercatore del Cnr, nel libro – si è assistito a una drastica diminuzione dei finanziamenti dei fondi nazionali: tra i tagli per l’assistenza sociale in Italia le voci di spesa destinate all’inclusione per immigrati hanno avuto una riduzione maggiore fino all’azzeramento.
Inoltre, secondo i calcoli dell’associazione Lunaria, impegnata nella ricerca sui temi dell’economia, del terzo settore e delle migrazioni, lo Stato italiano ha cofinanziato per la programmazione 2007-2013 i fondi europei per il contrasto e l’accoglienza per il 57%.
Tali fondi sono così distinti: Fondo Europeo per i Rifugiati (FER), per politiche e sistemi d’asilo degli Stati membri; Fondo Europeo per i Rimpatri (FR); Fondo Europeo per l’Integrazione di cittadini di Paesi Terzi (FEI); Fondo Europeo per le Frontiere Esterne, finalizzato al controlli delle frontiere esterne. Con la nuova programmazione 2014/2020 sono stati introdotti il “Fondo asilo migrazione e integrazione” (FAMI) – che riunisce i precedenti fondi FEI, FER e FR – e il “Fondo Sicurezza Interna” (FSI).
La dotazione finanziaria per il programma è di 3.137,42 miliardi di euro. La maggior parte dei finanziamenti (più dell’80%) saranno erogati secondo la gestione condivisa, cioè in cooperazione con gli Stati membri.

9) “Portano le malattie”

Uno dei luoghi comuni più diffusi è che i migranti portino malattie, come la tubercolosi e l’epatite A o di virus come l’Ebola e l’HIV e, all’arrivo nel nostro paese, siano pericolosamente infettivi.
Non è vero.
Innanzitutto perché l’HIV o le epatiti sono virus a trasmissione sessuale o, nel caso dell’epatite A, oro-fecale e, quindi – come spiega Maria Rita Gismondo, responsabile del laboratorio di Microbiologia clinica dell’ospedale Luigi Sacco di Milano e docente all’Università degli studi di Milano –, l’eventualità del contagio esiste solo tra i migranti stessi.
E poi perché, al loro arrivo in Italia, i migranti soffrono di malattie contratte a causa dei lunghi viaggi senza possibilità di cure igieniche, come la micosi o la scabbia (tra l’altro negli ultimi anni in incremento in Italia e facilmente curabile).
Un’indagine epidemiologica condotta nel 2014 dall’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP) nell’ambito territoriale Asl Roma B mostra come le principali patologie dermatologiche di tipo infettivo riscontrate in 3870 profughi in transito verso paesi nordeuropei e senza copertura sanitaria fossero la scabbia, la foruncolosi e l’impetigine.
I migranti, dunque, non costituiscono un rischio igienico-sanitario elevato. Più che di untori, si dovrebbe parlare di soggetti vulnerabili. Secondo i dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità tra maggio 2011 e giugno 2013 su oltre 5.000 persone ospitate presso centri di accoglienza, si sarebbero evidenziate solo 20 allerte statistiche.
A tal proposito, l’epidemiologo dell’INMP Giovanni Baglio ha parlato di «effetto migrante esausto», che porta chi è sano ad ammalarsi qui in Italia, a causa delle condizioni di estrema povertà, associate a scarsissima igiene nelle abitazioni, o al fatto di lavorare in situazioni a rischio.

10) “Sono tutti musulmani”

Solo un terzo di chi migra nel nostro paese è musulmano.
«L’incidenza dei cristiani, superando la metà del totale (53,9%), mostra – si legge nel dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes – quanto sia improprio in Italia agitare lo spettro di una “invasione” di persone di diversa religione, mentre i musulmani sono un terzo (32,9%) e i fedeli di tradizioni religiose orientali (induisti, buddhisti e altri) poco più di un ventesimo (5,9%)».
Il CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni) riduce, addirittura, la stima dei musulmani a circa il 26%, conteggiando gli immigrati in base all’effettivo contatto con un’organizzazione della loro religione in Italia. Come scrive il ricercatore Andrea Spreafico ci sono due luoghi comuni molto diffusi sulla presenza islamica in Italia: far coincidere l’appartenenza nazionale con quella religiosa, per cui si pensa che la provenienza dell’immigrato da un paese musulmano implichi necessariamente il suo essere religioso e dare per scontato che tutti i musulmani siano praticanti.
Questo tipo di associazione – prosegue il ricercatore – è probabilmente alla base della percezione sovrastimata della presenza di musulmani in Italia, come mostrato dalla rielaborazione di Fanpage di uno studio dell’Economist su presenza reale e percepita della popolazione di credo musulmano in Europa.

11) “Tra chi sbarca i profughi sono una minoranza”

Più che fornire un dato, questa frase evidenzia la superficialità nell’affrontare il fenomeno migratorio. Molto spesso, ad esempio, si fa confusione linguistica e giuridica tra “profugo” e “rifugiato”, come spiega la Treccani: «Nella prassi, di fatto, i due termini vengono impropriamente sovrapposti, ma è lo status di rifugiato l’unico sancito e definito nel diritto internazionale fin dalla Convenzione di Ginevra del 1951».
In Italia, a livello giuridico, sono previste tre forme di protezione internazionale:
1) Rifugiato: è colui che, in base ai requisiti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato”.
2) Protezione sussidiaria: è destinata a chi necessita di una forma di protezione internazionale perché in caso di rimpatrio sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenza generalizzata o per situazioni di violazioni massicce dei diritti umani.
3) Protezione umanitaria: chi, pur non rientrando nelle altre due categorie, viene reputato un soggetto a rischio per gravi motivi di carattere umanitario. Il riconoscimento di uno status è l’esito di un iter piuttosto complesso e lungo.
Spiega infatti Valeria Carlini del CIR (Centro Italiani Rifugiati) che non c’è automatismo tra paese di provenienza e riconoscimento della protezione di rifugiato: La valutazione delle storie personali è imprescindibile, è il fondamento stesso del diritto d’asilo. Non si può assolutamente escludere che tra le persone che vengono dal Pakistan, dal Gambia, dal Ghana ci siano chi è meritevole di protezione, anzi. Non è pensabile tener conto solo del paese d’origine, perché si deve sempre valutare anche il livello di vulnerabilità delle persone e della situazione di rischio che si lasciano alle spalle. Per questo le procedure vanno seguite con attenzione: anche un solo diniego sbagliato può portare a conseguenze gravissime sulla vita della persona che lo subisce.
I dati sulle richieste di protezione internazionale presentate in Italia nel 2014, rielaborati dal CIR, mostrano che il 60% delle domande esaminate sono state accettate: nel 10% dei casi è stato riconosciuto lo status di rifugiato, nel 22% la protezione sussidiaria e nel 28% la protezione umanitaria. Per quanto riguarda il 2015, i numeri mostrati dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, lo scorso ferragosto, raccontano di un aumento delle domande esaminate respinte (che superano di poco il 50%), con la protezione umanitaria che resta, tra le tre, quella più concessa.

12) “Non è vero che scappano tutti dalla guerra”

È una banalizzazione che non inquadra la complessità del fenomeno migratorio. Nel nostro lavoro Essere Migranti, abbiamo raccontato, infatti, – attraverso i report di Amnesty International –, come moltissime delle persone arrivate in Italia, fuggano da miseria, guerre, conflitti, persecuzioni e violenze da parte di gruppi terroristici.
I dati del ministero dell’Interno documentano infatti che i principali Stati di origine dei migranti al 31 agosto del 2015 sono: Eritrea (30.493), Nigeria (14.489), Somalia (8.747), Sudan (6.901), Siria (6.546) e Gambia (5.422). Giusy Baioni analizza nel dettaglio sul Fatto quotidiano le situazioni politiche e sociali dei Paesi dell’Africa, mostrando come non solo i siriani sono in fuga dalla guerra.

13) “Rimandiamoli a casa loro”

Come ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, «vista la situazione politica, non è possibile attuare politiche di rimpatrio con i paesi dai quali proviene la maggior parte dei migranti perché non c’è modo di avere accordi né su base nazionale né europea».
In assenza di accordi con i paesi di provenienza, l’alternativa è il rientro volontario assistito.
Ma il punto critico spiega il viceprefetto e dirigente del Dipartimento Libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno, Maurizio Falco: «è riuscire a trovare forme di incentivo per convincere il migrante a partire.
Il ritorno a casa è vissuto, infatti, come una sconfitta del progetto migratorio».
«Al tema del ritorno – scrive Carla Olivieri di RIRVA, rete di organismi internazionali, associazioni, ONG ed enti pubblici, che si occupa di rientro volontario assistito – è ancora attribuita una collocazione incerta, figlia da una parte di fasi politiche in cui esso era incluso dentro logiche “espulsive” e di sicurezza e dall’altra di una certa inerzia che porta il nostro paese ad affrontare il tema solo come adempimento di talune indicazioni comunitarie e non come oggetto di politiche complessive e sinergiche sul tema».

14) “Aiutiamoli a casa loro”

Aiutare i migranti nei loro paesi di provenienza non può prescindere da valutazioni sul contesto geo-politico di quelle aree caratterizzate, come spiegato prima, da guerre, miseria e difficili condizioni di vita. Come scrive Vittorio Longhi, giornalista esperto di diritti umani e del lavoro, «i conflitti, l’impoverimento cronico, i cambiamenti climatici a cui sono più esposte quelle aree del pianeta spingono a una riflessione urgente sui rapporti economici e sul ruolo che i nostri paesi hanno avuto e continuano ad avere nelle cause dei tanti esodi».
Aiutarli a casa loro – prosegue Longhi – significa pensare a misure di lungo termine per stabilizzare la situazione in Sudan, Somalia, Eritrea, Congo, Siria.
Significa intervenire sui traffici illeciti di armi, avorio, oro e diamanti, mercanti di minerali e materie prime che garantiscono affari tra trafficanti e governanti corrotti. «Si stima che ogni anno l’Africa sub-sahariana rimetta 192 miliardi di dollari tra i profitti delle multinazionali straniere, il debito accumulato, corruzione ed evasione fiscale, la perdita di forza lavoro qualificata.
E quanto riceve in cambio l’Africa, attraverso gli aiuti allo sviluppo? Circa 30 miliardi di dollari».
Invece, come mostra il progetto europeo di quindici giornalisti The Migrants Files, l’intervento dell’Europa e degli Stati membri verso il nord Africa si risolve in “assistenza tecnica per dittature di vicinato”.
«Sono stati spesi – si legge nell’indagine – 75 milioni per aiutare la Tunisia (durante la reggenza di Ben Alì), l’Egitto, la Libia, l’Algeria e la Mauritania a impedire l’attraversamento del Mediterraneo a migranti e rifugiati, molto spesso non tenendo conto delle implicazioni sui diritti umani».

Angelo Romano con la collaborazione di Andrea Zitelli da valigiablu.it