I “competenti” – Marco Minniti tra loro – si distinguono dalle anime belle per il realismo. Accettano che i migranti muoiano attraversando le frontiere, ma non lo fanno per ostilità bensì perché “non si possono accogliere tutti”. E gli Stati che organizzano campi di detenzione dove i diritti sono strutturalmente violati vanno bene perché i nemici assoluti sono i “trafficanti”. Naturalmente in difesa delle nostre democrazie.
di Bruno Montesano
Ci sono diverse forme di realismo: quello preoccupato, quello compiaciuto, quello indignato. In quello dei cinici, “pregiudizio e interesse” sono nascosti dietro alla durezza della realtà in difesa dell’esistente, secondo la definizione di Pier Paolo Portinaro (Il realismo politico 1999). Marco Minniti li combina tutti e tre. In un recente pezzo sul Foglio (il giornale realista e liberale per eccellenza), usa termini altisonanti per indicare la serietà delle sue tesi, nonché la loro assoluta, oggettiva, necessità. Viviamo sfide “epocali”, in pericolo è “il pianeta” – per il terrorismo internazionale –, siamo “in lotta contro il tempo”. Ma si possono ancora combinare umanità e legalità. A patto di combinare “visione e realtà” contro (è ovvio) “la retorica”. La sua posizione è rappresentativa di una buona parte della politica e dell’intellettualità liberaldemocratica italiana. Si pensi, ad esempio, al confronto tra “riformisti” e non, nella successione della direzione de Il Mulino.
Come spiega Portinaro, chi aderisce alla visione realista tende a contrapporsi alle anime belle e ai “gonzi”. Nell’ideologia anti-ideologica del realismo che domina oggi, chi sogna e prospetta cambiamenti radicali è considerato ingenuo. Questi dovrebbe lasciare lo scettro del potere – ma anche le armi della critica – agli adulti. Il realismo dei “competenti”, nuova ideologia dell’epoca della fine delle ideologie, è spesso lo strumento per legittimare politiche di difesa dell’ordine e squalificare come infantile chiunque si azzardi a proporre opzioni politiche che sembrino fuori dallo spazio del reale, ossia del dicibile e del pensabile. In questo senso – è noto – il realismo è l’ideologia delle classi dominanti.
Non tutti accettano che i migranti muoiano attraversando le frontiere per ostilità agli stranieri. Alcuni lo fanno perché ritengono che “non si possano accogliere tutti”. E quindi, in virtù di ciò, ne possono morire molti in mare, nei deserti, nelle foreste. E quindi si possono stringere accordi con chi facilita e realizza queste morti. Il realismo, in questo caso, si fa attiva connivenza con la violenza e non più riconoscimento della sua ineluttabilità che si cerca di limitare.
Marco Minniti quindi, da un lato riconosce che le migrazioni sono strutturali, e che non possono essere gestite come se fossero un’emergenza. È “oggettivamente” più lucido di chi ci governa. Che, non a caso, da un lato fa la faccia feroce, dall’altro vara un decreto flussi abbastanza capiente. D’altronde, deve stare attento alle esigenze di pezzi di economia che prosperano sulla violenza che i governi riversano sui migranti. Si spera che dei lavoratori stigmatizzati e discriminati dalle istituzioni, in bilico tra legalità e illegalità, siano più docili. Per Minniti, inoltre, bisogna guardare alle migrazioni come a una risorsa, in particolare demografica. Da questo punto di vista, la crescita della popolazione africana è positiva. “Abbiamo bisogno dell’Africa”. Ma proprio perciò, non possiamo “consegnare il movimento delle persone nelle mani dei trafficanti di esseri umani”.
Tanto Sant’Agostino quanto Charles Tilly pensavano agli Stati come bande di briganti o racket organizzati che però possono fregiarsi della legittimità della propria violenza. Per Minniti, i “trafficanti” sono nemici assoluti, mentre gli Stati che organizzano campi di detenzione dove i diritti sono strutturalmente violati vanno bene. Basta coinvolgere Nazioni Unite e altre istituzioni e si può così dare un’aggiustatina al patto con la Tunisia. Bisogna inoltre versare 4.5 miliardi in due anni dall’Europa all’Africa. Così si potranno affrontare “alla radice” i fattori che determinano le migrazioni. Tra i vari che elenca, mancano il peso di colonialismo e subordinazione postcoloniale (di cui dichiara la fine, salvo dire che i nuovi cattivi imperialisti sono Cina e Russia). Si suppone per realismo, perché non serve autoflagellarsi, come insegnano altri campioni di pensiero per adulti sul Corriere della Sera. Al contrario, l’Italia, “per storia, cultura e geografia”, deve avere un ruolo centrale nella nuova missione per l’Africa. E non per pagare delle riparazioni.
Infine, bisogna riformare la Bossi Fini, e lo può fare anche il Governo, perché si tratta di adeguare l’analisi e le leggi alla mutata realtà. L’implicito è che ieri quella legge potesse avere senso, oggi no. Minniti quindi riconosce che allungare i tempi di detenzione nei CPR non serve a molto ma bisogna invece comparare i “trafficanti di esseri umani” ai terroristi internazionali. Si suppone perché entrambi operano sul globo terracqueo, come acutamente compreso dal nostro Governo. D’altronde, Minniti da sempre legittima la scelta di far morire le persone in mare o in Libia scaricando la responsabilità sui cd. trafficanti di esseri umani. Peccato che le persone migrino decidendo, a causa di diverse ragioni, di spostarsi. A differenza degli schiavi che venivano rapiti e trasportati contro la propria volontà. Questo non fa di chi organizza le migrazioni illegalizzate un santo ma neanche a priori un nemico di pari livello di chi pratica attentati terroristici mortali. A meno di considerare i migranti delle armi, come la letteratura realista ci insegna, in termini di guerre ibride. Minniti poi conclude concedendo che l’integrazione «è un pezzo fondamentale delle politiche della sicurezza». Come già visto, il paradigma è quello securitario, ma con qualche correzione di compromesso con la realtà – i migranti ci sono e continueranno ad esserci – e qualche vago richiamo alla democrazia – che serve a blindare la scelta di continuare a fare accordi con autocrazie. Per difendere il nostro benessere di democrazie.
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