Da diversi mesi sono la tutrice di una ragazza somala (una Minore Straniera Non Accompagnata) che a 13 anni ha dovuto lasciare la casa e la famiglia (il padre e il fratello erano stati uccisi dagli scherani di Al Shebab).
Una ragazza somala in fuga per non essere costretta a sposare uno dei loro capi locali. Ci ha messo quasi un anno ad attraversare la Somalia, poi il Kenia, l’Uganda e il Sudan, prima di raggiungere, a 14 anni, la Libia. Era stata, insieme ad altri, avvicinata da trafficanti che promisero loro che li avrebbero portati in Libia a loro spese, ma una volta arrivati, chiesero a tutti una somma ingente per poter salire su una barca, e poiché non ce l’avevano, li rinchiusero nelle prigioni libiche.
Dal momento che lei non aveva un soldo, né ce l’aveva quel che restava della sua famiglia, vi rimase rinchiusa per quattordici mesi, e vi sarebbe ancora se non fosse successo qualcosa che ora racconterò.
Nelle prigioni (diverse, perché i prigionieri venivano venduti e rivenduti ai capo-trafficanti), si vegetava ammucchiati in stanzoni senz’aria, nutriti – non sempre – una volta al giorno di pasta all’acqua, picchiati, torturati e le donne regolarmente stuprate. Siccome lei è piccola, magrissima e minuta, sembra che sia stata risparmiata perché i carcerieri dicevano: «Se la tocco la sfondo». Non ho bisogno, vero?, di spiegare come queste ragazze, spesso infibulate, venivano violentate.
Comunque, arrivò il giorno che un ex-capo, tornato sul luogo, disse: «E che m’importa?» e si buttò su di lei con una canna tagliata in due, molto tagliente.
Lei si difese forsennatamente (è forte, come ho potuto osservare), e lui, per punirla, le inferse un taglio dalla fronte a tutta la guancia, sfregiandola (come si può ancora vedere).
Per sua fortuna, arrivò in quel momento il nuovo capo, e, spaventato da tutto il sangue che perdeva, temendo che morisse sul posto e lui ne venisse incolpato, le promise che l’avrebbe messa sulla prima barca in partenza. Ed è così che a quindici anni sbarcò, dopo tre giorni di mare, a Siracusa («il più bel giorno della mia vita», disse).
In seguito a questa vicenda, e all’impossibilità di tornare nel suo paese, dove verrebbe ammazzata per punizione (per punizione della sua fuga sua madre è stata trivellata di colpi e non può più camminare), la ragazza ha ricevuto la Protezione Internazionale.
Racconto questa storia perché la conosco personalmente. È vero che la conosciamo già, ma ci sono sempre gli increduli di comodo, come l’ex ministro Minniti, come il Pd (non credo che Di Maio sia percorso da un senso di responsabilità o di partecipazione), che continuano a blaterare di «aiutiamoli a casa loro» (come pensano di farlo in Somalia senza cacciare l’Isis?), e a fingere di voler frenare il flusso migratorio per non perdere altri voti, invece di porsi seriamente il problema e spiegare con chiarezza la situazione agli italiani e agli europei.
È inutile dire che questa è una delle pagine più buie dell’Europa, inutile chinare affranti il capo. Dovremmo scendere tutti per le strade per chiedere la chiusura degli accordi – il Memorandum – con la Libia, l’abolizione degli ignobili decreti in-sicurezza, e detrarre dalle nostre tasse la cifra corrispondente ai soldi che diamo a Libia e Turchia per torturare, ammazzare, stuprare, praticare un ruscellante genocidio.
Ci vuole coraggio, certo, più coraggio che a scrivere una vibrata protesta. E se mi unisco a tante scoraggiate parole, è solo perché, come ci ha insegnato Primo Levi, che ha vissuto in prima persona un’altra ‘pagina buia’ della Storia, bisogna testimoniare.
Ginevra Bompiani
da il manifesto