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Morte in carcere, una storia da riscrivere

Giovedì scorso un giovane di ventiquattro anni di Empoli è morto nel carcere di Sollicciano dopo aver sniffato il gas della bomboletta del fornellino da campeggio che serve per cucinare o farsi il caffè.

Era stato condannato in primo grado per furto di una bicicletta, un reato fastidioso ma non certo grave che la Giustizia ha colpito in maniera inflessibile applicando il totem del carcere come pena unica e certa.

Si tratta di una tragedia annunciata, perché tutti sanno che il gas viene usato da molti detenuti che fanno uso di sostanze stupefacenti per «sballarsi». Le bombolette potrebbero essere anche uno strumento di guerra in caso di rivolta, ma questo uso è fuori moda perché le carceri sono normalizzate; nessuno intende mettere a rischio i giorni della liberazione anticipata, dunque i detenuti tendono a subire tutto in silenzio, perfino la violazione dei propri diritti. La popolazione delle prigioni è perlopiù composta da poveri, immigrati, tossicodipendenti che parlano con il proprio corpo, con i suicidi e l’autolesionismo. Le notti in carcere sono caratterizzate dalle tre T: televisione, terapia, tagli. E il sangue scorre.

C’è da augurarsi che la risposta dell’amministrazione penitenziaria non sia di vietare i fornellini, anche per evitare proteste e mantenere il senso di una quotidianità normale.

È troppo pretendere invece che questa morte insensata obblighi a una riflessione sulla natura della pena carceraria, che Sandro Margara, guardando alla composizione della popolazione detenuta, definiva come «detenzione sociale»? Se oltre il 35 per cento è in carcere per violazione dell’articolo 73 del Dpr 309/90 che punisce la detenzione e il piccolo spaccio di droghe illegali e il 25 per cento per reati predatori (furti, scippi, rapine) legati alla condizione di marginalità di chi è classificato come tossicodipendente, non sarebbe doveroso ragionare sul fallimento della politica proibizionista e punitiva e sulla vanità della istanza terapeutica unicamente mirata all’astinenza forzata?

Una linea intelligente e umana si scontra oggi con l’insipienza di capipopolo che pretendono aumenti di pena per questi reati e addirittura l’abolizione della fattispecie prevista per i fatti di lieve entità, con la conseguenza, se questa pretesa si realizzasse, di riempire ancora di più le carceri e far condannare l’Italia per trattamenti crudeli e degradanti.

Bisogna andare controcorrente ed essere intransigenti: i garanti dei diritti delle persone private della libertà devono chiedere il rigoroso rispetto dell’Ordinamento Penitenziario e del Regolamento del 2000, sistematicamente disatteso, con denunce circostanziate.

La prima cosa da fare, come riduzione del danno, è pretendere l’installazione delle piastre elettriche a induzione, proposta che è stata raccolta dal Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e rilanciata al ministro della Giustizia Bonafede.

Infine, va aperto un confronto sul senso dei divieti che dominano la vita quotidiana nelle patrie galere. E’ vietato, contro la legge, l’acquisto di vino e birra, è vietato il diritto alla sessualità e alla affettività, i colloqui e le telefonate sono regolamentati in maniera burocratica, mancano mense e spacci, le biblioteche sono depositi di libri e non luoghi di lettura e studio.

Insomma il ritmo di vita è costruito per mantenere le persone in stato di totale e umiliante dipendenza, di «minorazione» infantilizzante, e non per creare autonomia e responsabilità.

Certo se in una sezione dedicata ai «tossicodipendenti» al termine di una giornata di trattamento, i detenuti sniffano gas, qualcosa davvero non va.

È ora di una grande riforma o di riconoscere che il carcere è un male che non cura le ferite sociali. Siamo di fronte a quella che Fabrizio De Andrè descriveva come «una storia sbagliata». Dobbiamo riscriverla.

Franco Corleone

da il manifesto