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I morti negli attentati, La Spoon river d’Europa

Ogni volta che c’è un attentato io vado a leggere i primi nomi delle vittime, di chi è caduto, di chi è rimasto ferito. Vorrei impararli a memoria, per recitarli, che so, davanti al mare, o la sera prima di addormentarmi, o pure quando mi metto a fianco della processione del paese, e ci sono tutte quelle litanie e una in più non credo darebbe fastidio alla madonna o a santo Rocco. Ma sono diventati troppi e non ci riesco.

Così, ho preso l’abitudine di scriverli su dei pezzi di carta, uno per ogni attentato. Li lascio sotto una pietra al monumento dei caduti della Prima grande guerra che sta in piazza – c’è un elenco lunghissimo con i nomi in lettere di bronzo scolpiti nel marmo – e non credo poi che cadere sul Carso per mano austriaca arrivandoci dalla Calabria sia meno assurdo che cadere sulla promenade di Nizza, per mano di un invasato fondamentalista, arrivando dalla Tunisia.

Fatima Charrihi, madre di sette figli, è stata la prima vittima del tir assassino guidato da Mohamed Lahouaiej Bouhlel. Qualcuno ha raccontato che facesse dei gesti, verso il tir, come a dire che stava andando nel senso sbagliato, e che lì c’era gente e il rischio che colpisse tutte quelle persone; aveva sessant’anni. Più o meno come Lyubov Panchenko, kazako, che era sulla promenade con la figlia e la nipote, entrambe decedute. Invece, Victoria Savchenko, russa, studentessa all’Università finanziaria di Mosca, di anni ne aveva ventuno. Più o meno come Nicolas Leslie, italo-americano che studiava scienze ambientali in California all’Università di Berkeley e era a Nizza per un programma di scambio tra studenti. E più o meno come Silan Anin, di Berlino, di origine turca, studentessa alla Paula-Furst di Charlottenburg, che era lì a festeggiare il diploma. Olfa Khalfallah, era tunisina e residente a Lione e di anni ne aveva trentuno. Più o meno come Narine Gasparyan, ispettrice doganale, di origini armene. E poi ci sono tutti gli altri, dai nomi francesi, italiani, americani e ci sono i parrocchiani russi come una di nome Natalia e suo marito, Roman, e pure il sagrestano, Igor.

Quando spararono al Bataclan e ammazzarono tutti quei ragazzi si parlò di generazione Erasmus. Era la musica che li aveva chiamati assieme, e la musica è giovane e non ha confini di nazione, si sa. Quella volta, cadde Lola Salines; al suo funerale non volle mancare un amico messicano, professore d’inglese in Giappone, che lei aveva conosciuto in uno stage. Poi ne aveva fatto un altro a Montreal, in Canada, di stage, e poi aveva iniziato a lavorare alle edizioni Gründ, occupandosi di libri per l’infanzia. Erano caduti anche Elsa DePlace, di origini cilene, Nick Alexander, che veniva dall’Inghilterra, e l’italiana Valeria Solesin. E gli altri, tutti gli altri.

L’altro giorno, quando a Monaco Ali Sonboly, diciottenne tedesco-iraniano si è messo a sparare all’interno del McDonald’s di fronte un centro commerciale, la prima vittima identificata è stata Dijamant Zabergja, un ragazzo kosovaro di ventun anni. E di origini kosovare erano anche Armela Segashi, che di anni ne aveva quattordici, e Sabina Sulaj, coetanea. Cittadini turchi erano Sevda Dag, Can Leyla e Selcuk Kilic; la donna, Sevda, aveva quarantacinque anni, Can e Selcuk, invece, di anni ne avevano quattordici e quindici, rispettivamente. Hussein Daitzik di anni ne aveva diciassette, e veniva dalla Grecia. Diciotto anni aveva invece Gulliano Kollmann, che era tedesco, ma di origini rumene. E poi, gli altri.
E insomma, va sempre così, che certi nomi non sei sicuro di come si pronuncino e pensi che lo stesso problema lo avranno i tedeschi o i francesi per leggere i nomi italiani dei caduti, però io ci provo lo stesso a impratichirmi perché sono poi le lingue d’Europa.

E questa Spoon River del terrorismo fondamentalista, questo cimitero di morti che i nomi vanno dal Baltico ai monti Atlante e poi dal Portogallo agli Urali mi porta la storia di uomini e donne che si sono messi in viaggio per lavoro, per studio, per gioco, per stare vicino ai propri cari, mi parla di progetti di vita. A volte scappavano da un qualche Faraone, da un Califfo qualunque, a volte cercavano solo dei fuochi d’artificio e un gelato. Niente potrà fermare questo. Questa Europa è già così, fatta di armeni e kazaki, di cileni e portoghesi, di italiani e russi, di tunisini e belgi che studiano, lavorano, prendono il gelato insieme.

La vita d’Europa è già oltre ogni stolida politica, ogni austerità, ogni rigore, ogni populismo.
Quando parliamo dei processi di globalizzazione, e nominiamo il mercato e le sue leggi, e il capitale finanziario e la sua ferocia, finiamo sempre con il confrontarci con parole astratte, con concetti e criteri a cui opponiamo altri concetti, altri criteri. Poi, ci sono le vite. E le morti. Le morti, e le vite, ci raccontano di un mondo che ha già superato barriere e confini, nazioni e bandiere. E cerca lavoro e gelati e fuochi d’artificio e musica e un hamburger per una serata serena.

Non c’è in Europa una Statua all’ingresso – come al piedistallo di quella della Libertà a New York – che intoni i suoi versi alla Madre degli Esuli «A me sol date / Le masse antiche e povere e assetate / Di libertà! A me l’umil rifiuto / D’ogni lido, i reietti, i vinti! A loro / La luce accendo su la porta d’oro». E sarebbe d’altronde complicato, perché in Europa si accede da dovunque. L’altro giorno, il presidentee Obama, ai funerali di Dallas, ha detto che «qui ognuno è stato portato da qualcun altro», raccontando la storia non solo degli afro-americani, ma dei polacchi e degli irlandesi, degli svedesi e degli italiani e degli ebrei d’America. Forse possiamo cominciare a dirlo anche noi europei, che qui ognuno è stato portato da qualcun altro.

Dicono che l’attentato di Monaco, del diciottenne tedesco-iraniano e anche quello di qualche giorno prima a Heidingsfeld, di un diciassettenne di origini afghane o siriane, dimostrino come ogni politica di integrazione sia fallimentare, e che vada fermata ogni immigrazione, la Francia ai francesi e la Germania ai tedeschi, come Trump vuole che l’America vada agli americani. Quando Lady Gaga si è messa a leggere il lungo elenco dei morti alla discoteca gay di Orlando, e c’erano Edward Sotomayor Jr., 34 anni, Eric Ivan Ortiz-Rivera, 36 anni, Kimberly Morris, 37 anni, Deonka Deidra Drayton, 32 anni, e gli altri, tutti gli altri, mi veniva da chiedermi di quali americani stesse parlando Trump, se avesse mai letto questi nomi bizzarri, dove partenze e arrivi, passato e futuro sono mescolati.

L’Uomo Bianco, il Gran Colono del mondo, vuole tornare a comandare da solo, vuole tornare a primeggiare, vuole erigere muri e barriere di filo spinato. La Storia è crudele e grottesca, si sa. Che oggi a rafforzare l’integralismo dell’Uomo Bianco siano gesti folli e assassini di persone meticce non dovrebbe poi stupirci così tanto.

Può anche darsi che l’uomo Bianco ci riesca per un po’, a fermare ogni cosa, ma questa trasformazione – questo passaggio dell’uomo – è inarrestabile. Basterebbe, se si potesse, chiederlo a Igor, il sacrestano russo morto sulla promenade.

Lanfranco Caminiti da il dubbio

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