Mozambico: tra nuovo e vecchio terrorismo alimentati dalla miseria
In Mozambico la sanguinosa guerra per le risorse (rubini, grafite, petrolio, gas…) si confonde con il conflitto tra governo e milizie jihadiste.
di Gianni Sartori
Appare evidente che il Mozambico naviga ancora in acque agitate. Soprattutto per l’irrisolta questione di Capo Delgado, dove la sanguinosa guerra per le risorse (rubini, grafite, petrolio, gas…) si confonde con il conflitto tra governo e milizie jihadiste. Conflitto alimentato dalle precarie condizioni di vita (soprattutto per il gran numero di “sfollati interni”) e che ultimamente si va espandendo verso la provincia di Nampula.
A conferma l’assalto di una ventina di armati alla missione di São Pedro de Chipene (il 6 settembre) costato la vita alla missionaria comboniana suor Maria De Coppi (84 anni, in Mozambico dal 1963).
Come se non bastasse, ora il governo di Maputo si ritrova con altre grane tra le mani.
Oltre agli scioperi ricorrenti del personale medico e di altri settori del pubblico impiego, incontra ostruzioni e difficoltà nella smobilitazione delle milizie della ReNaMo (Resistenza nazionale del Mozambico).
Ma qui devo inserire una precisazione.
Già negli anni novanta provavo un certo fastidio nel sentir parlare di “soldati della Renamo”, di “guerriglieri”, talvolta addirittura di “indipendentisti”.
In realtà si trattava (uso il passato con riserva) di una banda prezzolata di assassini al soldo prima della Rhodesia, poi del Sudafrica (all’epoca dell’apartheid). Terroristi, criminali puri e semplici, responsabili di stragi indiscriminate che non avevano niente da invidiare a Daesh in quanto a brutalità.
Eppure, anche da fonti insospettabili, talvolta se ne giustificava, se non l’operato comunque indifendibile, perlomeno l’esistenza. Evocando una presunta adesione, una “base sociale”, da parte di etnie che si ritenevano escluse dalle politiche governative (mentre altre, come quella minoritaria dei Makonde, godrebbero di privilegi immotivati).
Oppure invocando quella che allora si chiamava “guerra fredda”, un alibi ampiamente utilizzato anche dagli stragisti neofascisti nostrani.
In realtà, a mio parere, quello che accadeva in Mozambico non andava classificato come“guerra civile” o “scontro ideologico”. Trattandosi sempre a mio parere, di puro e semplice terrorismo, strategia della tensione alimentata dai razzisti di Pretoria, gli stessi che avevano fatto assassinare il leader del FreLiMo (Frente de Libertação de Moçambique) Samora Machel (nel 1986) e precedentemente (nel 1982) la militante dell’ANC rifugiata a MaputoRuth First. E che probabilmente collaborarono con i servizi portoghesi nell’eliminazione di Eduardo Chivambo Mondlane nel 1969.
Quanto alla presunta “base sociale”, anche l’Isis – se è per questo – potrebbe rivendicarne una. Così come anche l’integralismo islamico sfrutta, strumentalizza ingiustizie e discriminazioni traendone alimento. E fornendo, grazie ai cospicui finanziamenti di cui gode, opportunità e vantaggi (non solamente “spirituali”, ma soprattutto materiali) per i suoi aderenti.
Ma ovviamente non per questo va presa in considerazione come possibile interlocutore. Tantomeno come soggetto con cui concordare una qualche soluzione politica.
Quello che invece era accaduto con la Renamo nel secolo scorso.
Risaliva al 4 ottobre 1992 (festa di S. Francesco) la firma di un Accordo Generale di Pace tra il presidente mozambicano Joaquim Chissano (all’epoca anche segretario generale del FreLiMo) e Afonso Marceta Macacho Dhlakama (dirigente della ReNaMo scomparso nel 2018). Simbolicamente quelle firme avrebbero dovuto rappresentare la conclusione di un aspro conflitto civile costato centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e profughi.
I negoziati, durati oltre un anno, si erano svolti per lo più a Roma, nella sede della Comunità di Sant’Egidio a Roma.
In realtà, mentre per l’apartheid sudafricano si profilava comunque la conclusione, anche i suoi mercenari stavano cercando disperatamente una via d’uscita. E a Roma, in Trastevere, la trovarono già bella e spalancata.
Tra alti e bassi, ricatti e minacce (e la ripresa degli scontri armati tra il 2013 e il 2019), quel processo di pacificazione si era poi trascinato fino ai nostri giorni. Pareva definitivamente concluso nel 2019 con la firma definitiva tra il presidente Filipe Nyusi e Ossufo Momade (all’epoca presidente della ReNaMo e descritto come “relativamente “moderato”).
Invece oggi si scopre che una delle maggiori basi militari della ReNaMo (al momento però utilizzata da poche centinaia di miliziani) è rimasta in attività. Localizzata nella Serra di Gorongosa (provincia di Sofala), avrebbe fornito il contingente di ribelli ad oltranza che nel 2021 aveva ripreso a combattere.
Al governo mozambicano questi autentici “residuati bellici” rinfacciano di non aver integrato nella polizia nazionale, come pattuito, soldati e ufficiali dell’esercito mercenario e di non aver ancora garantito le pensioni ai reduci della ReNaMo.
Problema questo di non facile soluzione pensando alla difficile situazione economica in cui versa il Paese.