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Nei Cpr si sta come al 41bis

La dura condanna del comitato antitortura. Isolamento e uso eccessivo della forza sui reclusi: il rapporto al governo dell’organismo europeo, che ha ispezionato i centri per il rimpatrio, è inquietante. Come può un’aberrazione, in evidente il contrasto con la Costituzione, essersi protratta tanto a lungo e su vasta scala?

di Gianfranco Schiavone da l’Unità

Il quadro che emerge dal Rapporto al governo italiano del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti – o punizioni – inumani o degradanti (Cpt) e reso pubblico il 13 dicembre 2024 è veramente inquietante. Il Comitato è un organismo dell’Unione europea che ha il compito “per mezzo di sopralluoghi, di controllare il trattamento delle persone private di libertà allo scopo di rafforzare, se necessario, la loro protezione dalla tortura e dalle pene o da trattamenti inumani o degradanti” (Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, 1987 – art.1).

La visita, effettuata a quattro Cpr ovvero Gradisca, Palazzo san Gervasio (PZ), Roma e Milano tra il 2 e il 12 aprile 2024 è stata ritenuta “necessaria in base alle circostanze”, e il suo obiettivo era quello di “esaminare il trattamento, le condizioni di detenzione, le garanzie legali e la qualità dell’assistenza sanitaria fornita ai cittadini stranieri detenuti in quattro dei nove Centri di permanenza chiusi (Cpr), operativi sul territorio nazionale”. Nella sua relazione conclusiva il Comitato ha deplorato di non aver potuto “presentare le sue principali conclusioni ai vertici del ministero dell’Interno al termine della visita” e ha aggiunto infine che la risposta fornita dalle autorità italiane il 17 giugno 2024 alle osservazioni preliminari della delegazione del Cpt, sebbene informativa su alcuni aspetti specifici della gestione e delle condizioni degli specifici Cpr, non ha affrontato le preoccupazioni sistemiche e fondamentali espresse dalla delegazione alle autorità italiane al termine della sua visita e nelle sue osservazioni preliminari scritte”.

In queste poche parole c’è già la sintesi di un quadro spaventoso emerso nel corso delle visite: dai maltrattamenti inferti ai trattenuti alle degradanti condizioni materiali dei centri, dall’abuso degli psicofarmaci alla assoluta mancanza di ogni attività interna, fino alle carenze sanitarie e nell’assistenza legale. Il Comitato ha ricevuto numerose “accuse di maltrattamenti fisici e uso eccessivo della forza, le cui prove sono state trovate nella documentazione esaminata dalla delegazione”. Si tratta di fatti “legati alla gestione dei numerosi eventi critici che si sono verificati in diversi centri, consistenti in tentativi di fuga, atti di vandalismo, proteste e sommosse, ed episodi di agitazione psicomotoria di singoli detenuti, che hanno richiesto l’assistenza dei gruppi di intervento speciale (Interforze) all’interno dei moduli di detenzione dei Cpr”.

Ciò ha indotto il Comitato stesso a raccomandare “di trasmettere un messaggio chiaro, attraverso una dichiarazione formale da parte dei vertici del ministero dell’Interno, a tutti gli agenti di polizia che lavorano nei Cpr: qualsiasi forma di maltrattamento delle persone private della libertà è inaccettabile e sarà punita di conseguenza”. Oltre a ciò, una delle più rilevanti richieste del Comitato è quella di prevedere che, specie nelle situazioni critiche, “gli interventi nei centri di detenzione per immigrati debbano avvenire in presenza di un’autorità pienamente indipendente sia dalle forze di sicurezza interessate, sia dalla struttura di detenzione, incaricata di osservare e successivamente riferire sul modo in cui l’intervento è stato effettuato. La presenza di un’autorità di questo tipo avrebbe un effetto dissuasivo su chiunque avesse intenzione di maltrattare le persone detenute e faciliterebbe notevolmente le indagini su eventuali accuse di maltrattamento e la corretta attribuzione di eventuali colpe”. Si tratta di raccomandazioni che fanno capire quanto elevata sia la preoccupazione del Comitato in relazione al tema delle violenze nei Cpr.

È sulle condizioni della detenzione che le conclusioni del Comitato emergono implacabili: “Le condizioni di detenzione osservate in tutti i Cpr visitati al momento della visita del 2024 potrebbero essere considerate simili a quelle esistenti all’interno delle unità di detenzione sotto il regime speciale dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario italiano. Esempi di tali elementi sono i tripli schermi metallici alle finestre, le strutture esterne simili a gabbie e i televisori incassati in scatole metalliche”. Richiamo la massima attenzione del lettore perché le valutazioni di cui sopra non sono chiacchiericcio da bar o da arena politica di quart’ordine, bensì sono valutazioni giuridiche tanto tremende quanto autorevoli, che ci dicono che tutto è fuori controllo nell’istituzione totale dei Cpr.

La detenzione amministrativa per come è nata e si è sviluppata in Italia non è più (né probabilmente lo è mai stata fin dal primo giorno dell’apertura delle strutture, avvenuto più di 25 anni fa) una misura temporanea per l’allontanamento coattivo alla quale ricorrere solo in base “al principio di proporzionalità, con riguardo ai mezzi impiegati e agli obiettivi perseguiti (…) e se l’uso di misure meno coercitive è insufficiente” (Direttiva 115/1008/CE), ma un sistema generalizzato equiparabile nelle conseguenze alla più estrema (e per ciò spesso criticata) delle forme di detenzione prevista dall’ordinamento giuridico, che può essere adottata solo in casi assolutamente eccezionali per ripristinare l’ordine e la sicurezza o per impedire il collegamento del detenuto con un’associazione terroristica o eversiva. Come è possibile che una tale aberrazione sia avvenuta su così larga scala e che permanga inossidabile nel tempo?

La principale ragione di ciò sta nel contrasto, ad avviso di chi scrive evidente anche se mai emerso, del sistema dei Cpr con l’ordinamento costituzionale, ed in particolare con l’articolo 13 della Costituzione, sotto due profili: il primo è che limitazione della libertà personale nei Cpr è adottata in via generale dall’autorità di polizia e il controllo di legittimità giurisdizionale, oltre ad essere affievolito perché esercitato non dalla magistratura ordinaria, bensì dal giudice di pace, è limitato alla sola convalida del trattenimento, operando così un completo rovesciamento dell’impianto costituzionale che prevede che una misura limitativa della libertà personale di chiunque, cittadino e non, possa essere adottata solo dall’autorità giudiziaria e che solo in casi eccezionali – di necessità ed urgenza – tale decisione può essere assunta dall’autorità di polizia con successiva verifica di legittimità della decisione da parte dell’autorità giudiziaria.

Il secondo fondamentale profilo riguarda il tema delle modalità del trattenimento nei Cpr, ovvero la disattesa necessità che sia la legge a definire non solo i casi, ma anche “i modi” della restrizione della libertà. Nei Cpr, fin dalla loro apertura, le modalità del trattenimento sono invece regolate da vacue disposizioni regolamentari (come il Dpr 394/99) o peggio ancora da semplici disposizioni prefettizie e persino da scelte gestionali nell’organizzazione dei centri di detenzione. La diffusa, ma tragicamente errata, idea che la detenzione amministrativa fosse una sorta di detenzione leggera, la cui stringente regolamentazione non fosse dunque necessaria, ha prodotto nell’ultimo quarto di secolo una delle più persistenti e violente istituzioni totali della società contemporanea.

Questa macchina non può essere riformata con qualche piccolo intervento normativo ma deve essere spenta per essere sostituita con qualcosa di radicalmente diverso nelle finalità e nell’impostazione, al pari di quanto avvenuto con la chiusura di un’altra istituzione totale: i manicomi. Ed è forse proprio a ciò che fu e a come funzionò quel mondo di violenza che bisogna guardare oggi per capire cosa sono i Cpr; a Palazzo San Gervasio “la delegazione ha osservato la diffusa somministrazione di farmaci psicotropi diluiti in acqua alla popolazione detenuta da parte del personale sanitario senza prescrizione medica o supervisione”. L’abuso dell’utilizzo degli psicofarmaci è un tema oggetto anche del recente rapporto “Cpr: porre fine all’aberrazione” curato dal Tavolo Asilo e Immigrazione nel quale sono evidenziati “servizi medici insufficienti e abuso nella somministrazione di psicofarmaci, la mancanza o l’inadeguatezza di protocolli sanitari che aggravano i problemi di salute dei trattenuti”. Un quadro in linea con quanto era emerso dall’ampia inchiesta giornalistica di Luca Rondi e Lorenzo Figoni confluita nell’appena edito libro Gorgo Cpr (2024, editore Altreconomia).

Dopo aver valutato la situazione nei quattro Cpr visitati il Comitato ha concluso che “l’attuale sistema di certificazione da parte dei medici dell’idoneità alla detenzione dovrebbe essere rivisto per garantire che siano coinvolti medici con esperienza e conoscenza delle condizioni di sicurezza”. Come in ogni istituzione totale il tempo degli internati all’interno dei Cpr è come sospeso: il Comitato osserva infatti che “per quanto riguarda il regime di attività offerte ai detenuti nei Cpr visitati (essi) erano di fatto immagazzinati” (il Comitato ha proprio usato il termine inglese “warehoused” (in italiano significa immagazzinati/stoccati). Nelle sue conclusioni il Comitato “raccomanda alle autorità italiane di avviare una seria riflessione sul concetto di Cpr” e “invita le autorità italiane a intraprendere azioni risolute (ndr nel suo testo il Comitato ha sottolineato queste parole) per migliorare l’approccio e la situazione generale dei Cpr alla luce delle raccomandazioni del Comitato”. Il Governo è dunque chiamato a ripensare l’intero sistema dei Cpr. Lo farà?

 

 

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