Nel Cie di Ponte Galeria si vive peggio che in prigione
- agosto 14, 2019
- in migranti, migranti cie
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La denuncia del garante regionale delle persone private della libertà Stefano Anastasìa. La struttura accoglie 157 immigrati, 106 uomini e 51 donne, che vivono in condizioni precarie e con un’assistenza sanitaria carente
Vivono in condizioni sempre più difficili con una assistenza sanitaria insufficiente e il caldo di questi giorni peggiora le cose. Formalmente non è un carcere, ma di fatto lo è ed è anche di gran lunga peggio. Parliamo del Centro di permanenza per il rimpatrio ( Cie) Roma- Ponte Galeria, dove sono trattenuti gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno. A denunciare la situazione critica è il garante regionale delle persone private della libertà Stefano Anastasìa che nei giorni scorsi è andato a far visita. Si tratta di una struttura che accoglie 157 persone, precisamente 106 uomini e 51 donne. Particolarmente critica è la situazione nel reparto maschile recentemente riaperto e subito riempito, in gran parte da ex- detenuti che vengono trasferiti all’interno della struttura alla fine della pena. Suddiviso in otto sezioni chiuse e separate tra loro da grate e cancellate alte circa otto metri, gli ospiti hanno segnalato alcune criticità, che riguardano la somministrazione dei pasti, l’impossibilità di utilizzare telefoni personali, l’assistenza sanitaria carente e la scarsità del personale, ridotto a soli otto operatori per turno, ciò ricade sugli spostamenti degli ospiti nella struttura, che devono essere sempre sorvegliati. «Già nelle scorse settimane avevo rappresentato alla Prefettura di Roma il problema della comunicazione con l’esterno, che non può essere garantita dall’uso di telefoni fissi a scheda, troppo dispendiosi economicamente per i trattenuti – ha spiegato Anastasìa – Oggi ho scritto al Direttore generale della Asl Rm3, competente per territorio, affinché sia al più presto riattivato il protocollo con la Prefettura, che fino a ottobre dello scorso anno ha garantito la presenza quotidiana a Ponte Galeria di medici Asl, sia a fini certificatori che per la prenotazione di accertamenti diagnostici e visite specialistiche negli ambulatori del territorio».
L’edificio di Ponte Galeria era stato riaperto pochi mesi fa, a maggio, dopo che nel 2015 era stato danneggiato a seguito di una rivolta di alcuni migranti ospitati all’interno del centro. Il 5 luglio scorso 30 migranti erano fuggiti dal Cie. Avevano inscenato una rivolta in tarda serata. I migranti hanno sfondato le porte e scavalcato le recinzioni fuggendo nelle campagne circostanti. Delle trenta persone scappate, la maggior parte sono state riprese. I migranti reclusi nel centro, formalmente vengono chiamati ospiti, ma di fatto sono detenuti.
Ma con la differenza che hanno meno garanzie dei detenuti reclusi nelle carceri. Quest’ultimi – come ha spiegato più volte l’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà – hanno il magistrato di sorveglianza che oltre a vigilare sulla legittimità del loro essere detenuti deve ( o dovrebbe) vigilare anche sulle condizioni interne. Mentre, nei centri per il rimpatrio il giudice di pace vigila sulla correttezza dell’averli messi lì ma non vigila poi sulle condizioni interne. In più emerge un dato che il Garante nazionale Mauro Palma ha esposto recentemente alla commissione della camera sull’indagine conoscitiva in materie di politiche dell’immigrazione. «Delle 2.267 persone che sono state trattenute nei centri nei primi sei mesi – ha spiegato Palma alla camera – soltanto una percentuale pari al 39,3 per cento è stata rimpatriata. Tale questione ci pone il problema della legittimità della privazione della libertà per le rimanenti persone». Trattandosi di centri per il rimpatrio, teoricamente lo scopo del trattenimento è funzionale a un effettivo rimpatrio. «Nel momento in cui, invece, diventa una misura indipendente dall’effettivo rimpatrio – ha spiegato sempre il garante in commissione -, c’è il rischio che essa sia soltanto una misura che agisce sul piano simbolico e sul piano dell’avvertimento, come un messaggio del tipo: non venite in Italia, perché rischiate di essere trattenuti, indipendentemente dal fatto che poi questo avvenga con il rimpatrio».
Damiano Aliprandi
da il dubbio