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NoTav e terrorismo: quale delitto e quale castigo

Intervista all’avvocato Gilberto Pagani presidente del Legal Team Italia

«Chiunque per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, nel primo caso, con la reclusione non inferiore ad anni venti e, nel secondo caso, con la reclusione non inferiore ad anni sei».Così recita il primo comma dell’articolo 280 del codice penale, quello che inquadra il delitto di “Attentato per finalità terroristiche o di eversione”, il reato contestato nei giorni scorsi a 12 persone per la protesta contro l’alta velocità in Val di Susa.

Nonostante i media e le istituzioni abbiano sostenuto pressoché all’unanimità l’operato della magistratura e delle forze di polizia, noi che il movimento No Tav lo conosciamo in prima persona e che dietro a questa scelta, formalmente giuridica, vediamo prima di tutto delle ragioni politiche, abbiamo deciso di interpellare uno che di diritto penale e di movimenti se ne intende: l’avvocato Gilberto Pagani. 
Buongiorno, potrebbe prima di tutto fare un inquadramento giuridico del reato contestato per i fatti del luglio 2013 in Val di Susa?
L’articolo contestato è il 280, che usa la parola attentato e quindi presuppone che ci sia un attentato alla vita o all’incolumità delle persone, aldilà del vincolo associativo, che è invece descritto nell’articolo 270, quello che punisce chi si associa per commettere reati volti a modificare l’ordine costituzionale, e che al contrario del 280 non contempla la commissione di avere azioni, ma soltanto l’associazione.

Ci sono a mio avviso due principali stranezze in questa contestazione.

La prima è che la magistratura non ha contestato il reato di associazione, quando a rigor di logica se c’è un gruppo eversivo che commette un attentato dovrebbe esserci anche un’associazione.

Che non c’è, perché siamo davanti a un movimento corale che si esprime in maniera uniforme secondo le soggettività di tutti, con obiettivi condivisi da molte persone.

La giurisprudenza negli ultimi anni, soprattutto in relazione alle vicende del movimento, ha sempre ritenuto che per il reato di associazione non fosse necessaria una vera e propria organizzazione stabile, ma che fosse sufficiente una comunità di intenti e di voleri. Si è visto bene a Genova, dove per i reati di devastazione e saccheggio, la compartecipazione psichica di tutte le persone condannate era stata posta a base del reato, anche se non c’era una organizzazione stabile.

Lo stesso si è visto sempre a Genova con la vicenda dei teatranti austriaci per cui è stata contestata un’associazione a delinquere al fine di commettere devastazione e saccheggio senza la presenza di un’organizzazione, ma semplicemente sulla base di un legame psichico che univa anche inconsapevolmente agli autori o i supposti attori del reato.

In mancanza di altri elementi, la prendiamo come stranezza.

La seconda stranezza macroscopica?

La seconda è che per quello che tutti sappiamo in Val di Susa non c’è stato alcun momento particolare di attività violenta verso persone. Ci sono state attività dirette verso cose, ma nessun tipo di vero attacco fisco rivolto alle forze dell’ordine, se non in termini assolutamente minimali, che sono quelle del confronto prima ancora che dello scontro di piazza.

Questo tipo di provvedimento e queste perquisizioni che individuano come obiettivo dei, per così dire, “facinorosi” o “eversori” quello di attentare all’ordine democratico mediante attentato contro le persone è una cosa nuova. Perché noi tutti sappiamo cosa sta succedendo in Val di Susa, e cioè che le proteste sono contro le cose. La gente non vuole che vengano costruite queste opere e per questo ci sono state delle azioni volte a colpire gli oggetti, le cose, le reti, il compressore. Non volte a colpire le persone.

Quindi da un lato c’è la stranezza dell’attentato a persone, che non esiste, e dall’altra parte la cosa molto grave è la finalità di terrorismo, perché la finalità di terrorismo presuppone una volontà di rovesciare violentemente gli ordinamenti democratici e repubblicani. Tutto si può dire della Val Susa, ma non questo. Questa è una scelta che probabilmente nasce dall’esigenza di ipotizzare un reato più grave possibile che dia più spazio in termini di intercettazioni, di perquisizioni, di misure carcerarie e anche di sostegno dell’opinione pubblica.

Come si possono spiegare quelle che fino ad adesso lei ha definito “stranezze”?

La mia opinione è in linea con quanto altri hanno già detto, ovvero che in realtà la cosa principale che si voglia fare sia da una parte continuare nell’opera di intimidazione del movimento e dall’altra carpire informazioni che si possono avere da parte delle forze di polizie soltanto con una perquisizione, così come in effetti è avvenuto.

Qui ci scontriamo con un’altra bizzarria, purtroppo stiamo un po’ brancolando nel buio, perché per fare una perquisizione alla ricerca di armi o esplosivi non è necessario alcun provvedimento del giudice. La polizia può intervenire direttamente e allora perché questo non è successo? La risposta a mio avviso sta nel fatto che l’intenzione fosse quella di collegare la lotta della Val Susa al terrorismo.

Che ruolo ha la militarizzazione del cantiere in tutto questo?

Sappiamo che da due anni c’è una legge che stabilisce che le opere in Val Susa sono opere di interesse strategico nazionale e sono sostanzialmente equiparate a zone militari. Ci sono divieti vari uno più stringente rispetto a qualsiasi altra situazione o circostanza che vengono imposti proprio in virtù del fatto che la zona è equiparata ad un sito militare.

È un aspetto molto importante. Perché quando c’è l’esercito non solo per le strade ma anche a difesa di impianti produttivi di cantieri o cose del genere, quando viene imposta la militarizzazione è perché lo stato non è più in grado di recuperare consenso e di intervenire in altro modo. Un primo esempio è stato la militarizzazione delle discariche nel napoletano, nel 2009/2010. Tutto quello che lo stato può fare è andare allo scontro e ovviamente se uno invece di protestare davanti a una fabbrica protesta davanti a una base militare – anche se base militare non è, perché non ci sono armi né altro di questo genere – è chiaro che il livello dello scontro si alza. Si assottiglia sostanzialmente il divario tra repressione e guerra.  Tra un intervento per l’ordine pubblico in difesa della libertà dei cittadini e azioni criminali repressive.

Di che natura possono essere le ragioni che hanno spinto la magistratura e le forze di polizia a contestare il reato di attentato per finalità terroristiche o di eversione sia stato contestato proprio oggi, a maggior ragione visto che da un punto di vista giuridico l’appiglio all’articolo 280 è, per usare un eufemismo, molto discutibile?

Penso che l’intento sia quello di dire “guardate che non stiamo scherzando e se non la piantate di protestare in varie forme procediamo con reati pesantissimi”. Si tratta di una scelta di politica giudiziaria, che viene impostata dalla Procura delle Repubblica. L’esempio è ancora una volta Genova: tirare fuori il reato di devastazione e saccheggio, così come tirare fuori oggi il reato di attentato che non c’entra nulla, è una scelta ben precisa della Procura, quella di alzare lo scontro.

A suo parere si può leggere una sorta di mandato politico nell’operato della magistratura?

È un’opinione molto personale. Io sono convinto che la magistratura abbia una forte autonomia, nel senso che è un potere stabile, che si perpetua aldilà dei cambiamenti politici. Il punto è che la magistratura segue un proprio percorso politico. Credo che le questioni centrali in questo senso siano due. Prima di tutto l’affermazione del proprio potere, perché il potere vuole prima di tutto perpetuarsi e in secondo luogo la difesa e il sostegno dell’ordinamento attuale – basato sulle disuguaglianze e sulle ingiustizie – con l’obiettivo della pace sociale.

Il discorso è molto complesso. Diciamo che prima degli anni ‘80 c’era una subordinazione abbastanza visibile della magistratura al potere politico. Poi a partire da Mani Pulite la magistratura diventa un potere autonomo, che ha contribuito in modo decisivo a cambiare la situazione politica, fino ai giorni nostri. Da allora attorno ad essa si è sviluppato un enorme consenso, che continua ancora oggi, in modo assolutamente acritico, in nome della legalità fuori da ogni contesto, apprezzata come valore in sé. Ma la legalità di per sé non è un valore, il valore sta nei diritti. Lo diceva già Sant’Agostino: se una legge non è giusta non sono tenuto a rispettarla.

Mani Pulite ha senza dubbio rappresentato una rivoluzione, che ha portato al crollo di una classe politica. Ma un cambiamento che parte dalla magistratura non può che essere autoritario. Così sono cambiati i personaggi politici, ma non è cambiata la sostanza e lo sbocco non ha potuto che essere autoritario, e ha portato a Silvio Berlusconi.

Anche il fatto di far passare in secondo piano la denuncia di abusi da parte delle forze dell’ordine è una scelta di politica giudiziaria, che mira a colpire il movimento. Da una parte quindi assistiamo ad indagini e ipotesi di reati gravissimi, dall’altra non c’è stato un lavoro approfondito da parte della Procura sulle violenze delle forze di polizia, violenze documentate.

I media hanno incondizionatamente e all’unanimità appoggiato l’operato della Procura. E, in alcuni casi, non concepiscono neppure l’idea di metterlo in discussione. Che rapporto di influenza c’è tra media, procure e opinione pubblica?

Io credo che le procure influenzino i media. Ovvero: là dove le procure intendono colpire, i media intervengono. La volontà repressiva si avvale delle procure, principalmente sostenute dai media. Soprattutto certi giornali, e soprattutto a Torino, appoggiano incondizionatamente la Procura. Non è la Procura che si fa raccomandare dalla stampa, ma la stampa che sostiene con un’azione di decisa informazione l’attività delle procure.

Come tecnico del diritto, ritiene che le leggi del codice penale siano adatte al contesto storico che viviamo?

Una cosa che stiamo dicendo da tempo è che c’è un corpo di norme che risale ad altri momenti storici. Dopo l’11 settembre 2001, abbiamo assistito a un fiorire di leggi volte a colpire quello che veniva identificato come un nuovo terrorismo, con conseguenze importanti rispetto alle autorizzazioni per le intercettazioni. Il terrorismo è l’unico caso nel nostro ordinamento per cui le intercettazioni possono essere applicate dalle procure della repubblica senza passare dal giudice. Il fatto è che, spesso, queste leggi che vengono spacciate come strumento a tutela dell’ordinamento democratico contro il terrorismo internazionale, vengono utilizzate per colpire miseramente un movimento e per perseguitare persone che fanno semplicemente un uso dei diritti costituzionali di protesta.

da MilanoInMovimento