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Novità e continuità: cosa è Casapound oggi?

Ritorniamo, a bocce ferme, sulla marcetta di Casapound del 21 maggio. Ci ritorniamo non per autoflagellarci, per gridare allo scandalo sul loro concerto a colle Oppio (che ci ha fatto schifo, ma non è che le sedici edizioni di Atreju nello stesso posto – dal 1998 al 2013 – siano state meglio: ci sono stati anni, infatti, in cui Azione giovani non era quel covo di tiepide mammolette che è oggi), per paventare un pericoloso rischio fascista o un ritorno del ventennio mussoliniano che, di fatto, non esiste. Lo facciamo, invece, per tentare di abbozzare un’analisi di cosa sia Casapound oggi, perché ogni – necessaria e, probabilmente, non più derogabile – riflessione dei compagni su come si pratichi l’antifascismo oggi deve partire da questo.

Parliamo di loro e non di noi non per fuggire dalla necessità di una discussione franca, ma perché riteniamo che nei luoghi in cui essa prenderà forma si debba partire da alcune riflessioni politiche che avranno, per ovvi motivi, come oggetto principale l’attività di Casapound a Roma. Partiamo da un dato: come dicevamo in un precedente commento, i neofascisti a Roma ci sono da sempre e si sono riorganizzati qui, in forma più o meno clandestina, già dal 1944, mentre nella metà settentrionale della penisola c’erano ancora la Repubblica sociale italiana e i nazisti. Roma ha rappresentato storicamente un laboratorio del neofascismo nelle sue forme più svariate, comprese quelle terroristiche. I primi arresti per riorganizzazione del partito fascista, a Roma, datano marzo 1945: la guerra, appunto, non era ancora finita. I fascisti a Roma ci hanno sempre sfilato, nelle facoltà della Sapienza c’erano pure nel 1968 (quando provavano ad assaltarle), i loro comizi – in campagna elettorale o no – li hanno sempre fatti.  Con numeri, tra l’altro, ben più alti di quelli ridicoli portati in piazza da Casapound in una manifestazione nazionale annunciata dalla metà dello scorso novembre. A Colle Oppio, addirittura, il Movimento sociale italiano aveva una delle sue sedi più importanti, quella da cui partirono le spedizioni con cui, negli anni ’50, alcune decine di fascisti assaltarono la sede del Pci di Garbatella (“la Villetta” di via Passino) o la sede stessa del Partito comunista a via delle Botteghe oscure, con bastoni e bomboni. Per chi ne volesse sapere di più, consigliamo la lettura dell’Autobiografia di un picchiatore fascista di Giulio Salierno, prima giovane missino, poi noto sociologo comunista. Quella sezione missina di Colle Oppio, tra l’altro, ha mantenuto la sua importanza per tutti i decenni successivi, fino alla dissoluzione di Alleanza nazionale: non è un caso che dal 1998, come accennato sopra, la festa della giovanile del partito, Atreju, si è tenuta lì. Il corteo di Casapound, quindi, non ha violato alcuna verginità del centro di Roma: come ricordava un compagno in un commento di qualche giorno fa, senza andare indietro agli anni ’50-’60, basterebbe ricordare la manifestazione di centinaia di naziskin promossa da Movimento politico di Maurizio Boccacci (oggi capo di Militia), propaggine romana del network Base autonoma, nei primi anni ‘90: allora Mp – che aveva sede a via Domodossola, a San Giovanni – contava circa 150 militanti, che andavano in giro ad accoltellare tunisini, a fare spedizioni punitive contro gli immigrati e ad assaltare centri sociali (noto il caso del Breakout di Primavalle), eppure sfilavano tranquillamente per il centro di Roma. Il 29 febbraio 1992 marciarono in alcune centinaia e arrivarono fino a piazza Venezia, dietro gli striscioni «No alla società multirazziale» e «Per gli italiani aumentano le tasse, per gli immigrati sempre più vantaggi» e con slogan come «Casa agli italiani, via gli stranieri» e «Europa europea» (leggi). Più recentemente, il prode Boccacci, il 28 ottobre 2002 – in occasione dell’ottantesimo anniversario della marcia su Roma – convocò una manifestazione proprio a piazza Vittorio per «liberare gli italiani prigionieri in territorio straniero» e «Contro il degrado dell’Esquilino e la società multirazziale» (leggi): vi parteciparono solo un’ottantina di camerati e i compagni organizzarono una degna contromanifestazione, ma pure i neofascisti a piazza Vittorio non costituiscono una novità.

Per non parlare, poi, della stessa Casapound, che nel luglio 2014 (neanche due anni fa!) ha sfilato da piazza dell’Esquilino a piazza Venezia in un corteo contro degrado, centri d’accoglienza e campi nomadi (leggi).

Dal punto di vista delle manifestazioni pubbliche e dei loro contenuti, quindi, Casapound non si è inventata nulla di nuovo e pensiamo sia inutile stracciarsi le vesti ogni volta come se fosse la prima. I neofascisti esistono e hanno una funzione ben precisa in un paese a capitalismo avanzato come l’Italia: indirizzare la rabbia determinata dal disagio sociale contro alcuni «capri espiatori», per far sì che non si rivolga contro il sistema stesso, e colpire l’agibilità politica di quanti, nelle diverse sfumature, a esso si oppongono sul serio. Cioè dei compagni. I fascisti rappresentano un nemico di classe perché mirano a dividere la classe stessa – oggi, principalmente, sulla linea di frattura italiani/immigrati – e ad assopirne lo spirito di lotta, indirizzandolo verso falsi obiettivi.

Il problema dell’affermazione generale del neofascismo, inoltre, è di fase: non è un caso se il 21 maggio Casapound ha manifestato a Roma in «difesa dell’Europa» coordinata con i suoi alleati internazionali ad Atene (Alba dorata), Madrid (Hogar Social) e Budapest (Alternativ Europa). I numeri di Madrid, a leggere gli articoli dei giornali e a guardare le foto, ci sembrano gli stessi di Roma, nonostante i movimenti antagonisti in Spagna siano in questo momento probabilmente più forti che in Italia e nonostante il fatto che l’attività di Hogar Social sia praticamente limitata alla sola capitale spagnola. La crescita dei consensi per i neofascisti, quindi, è un fenomeno che riguarda tutta l’Europa (leggi) – tra l’altro, in Italia è molto meno imponente che altrove – e che si ricollega alla crisi economica e allo scontento delle classi lavoratrici verso l’Unione europea e le sue politiche: nella prateria lasciata dai movimenti antagonisti antifascisti – che, anzi, non di rado sembrano criticare le posizione di Casapound proprio accusandola di essere «anti-europeista» – non è difficile per i neofascisti trovare una propria collocazione.
Tutto bene, quindi? Niente di cui preoccuparsi? La solita minestra riscaldata? No, non proprio. Perché l’organizzazione di Casapound – per come si sta costruendo in questo momento – contiene effettivamente degli elementi di novità che è necessario tenere presente, per evitare – ora e nel futuro – di contrastare l’organizzazione neofascista con la trita retorica dell’affronto alla «città medaglia d’oro per la Resistenza» o, ancora più anacronisticamente, col timore che essi possano, nei loro cortei, «esporre labari della Rsi» o lasciarsi andare a saluti romani (li fanno, ma certo non nascondono di essere fascisti quindi non capiamo bene di cosa dovremmo sorprenderci). Lo ripetiamo: tutto ciò ci fa schifo ma, evidentemente, l’immagine di sé che mostra Casapound necessita di una decostruzione diversa.

Questa totale incapacità di comprendere e contestualizzare il fenomeno Casapound è risultato evidente in trasmissioni come Omnibus del 23 maggio scorso: in un’ora e mezza di trasmissione, anche le voci critiche – in un clima di anomala benevolenza verso Cpi, come dimostra il servizio sui “due cortei” – hanno dimostrato di non avere minimamente idea di cosa stessero parlando, lasciando di fatto la possibilità a Simone Di Stefano di fare un’ora e venti di propaganda per il suo partito.
Partito, appunto, perché tale è ormai Casapound. Un primo elemento da evidenziare, infatti, ci sembra la trasformazione ormai compiuta di Cpi da «movimento-partito» a organizzazione più strutturata, in grado di mobilitare dall’alto qualche centinaia di militanti sul piano nazionale. Ciò è risultato evidente proprio il 21 maggio, quando senza alcuna propaganda (o quasi) sui social networks e sui canali propagandisti ha richiamato a Roma una quindicina di pullman: si trattava – come tra l’altro evidente anche dalle foto del corteo – nella quasi totalità di militanti, molti anche molto giovani, non di gente comune, sulla quale l’organizzazione neofascista non ha evidentemente alcuna presa. E, in questo, ci sembrano differire anche da Hogar Social, che nella sua manifestazione contemporanea ha almeno tentato di dare un’immagine dei propri simpatizzanti molto più varia e meno militante (vedi). Casapound, invece, non ha bisogno di fare propaganda al corteo – per non parlare di Tana delle Tigri, il loro evento musicale di cui hanno tenuto nascosta la location fino all’ultimo istante – perché sa che nessuno ci andrà di sua spontanea volontà: i partecipanti sono, infatti, mobilitati dall’alto, sono i militanti dell’organizzazione. Qualche struttura di compagni ha mai pensato di organizzare il proprio evento dell’anno in segreto? Vi sembrerebbe normale se noi annunciassimo il luogo dell’Achtung Banditen il giorno stesso? Chiaramente no: infatti, agli eventi dei compagni ci vanno migliaia di persone.

La maggiore strutturazione di Casapound è simboleggiata dal passaggio di testimone – anche estetico – tra Gianluca Iannone, oggi forse troppo occupato a gestire l’attività economica e commerciale propria e dell’organizzazione, e Simone Di Stefano. Ciò è risultato particolarmente evidente sul palco di Colle Oppio, quando il primo – tatuato, con un passato in Movimento politico, cantante in un gruppo neofascista, pluricondannato per episodi di violenza, leader di una stagione ormai conclusa di Casapound, vestito con jeans, camicia informale e felpa – ha presentato  il secondo, intervenuto in giacca e cravatta come siamo ormai abituati a vederlo nella campagna elettorale. I due costituiscono però le due facce della stessa medaglia, i due spiriti che convivono e si completano nella stessa organizzazione.

Il modello adottato da Casapound sembra essere sempre più quello di Alba dorata, che da un lato rappresenta una forza istituzionale – alle elezioni del 2015 si è affermato come il terzo partito della Grecia, seppur con un consenso elettorale fermo a un misero 6%, la stessa percentuale ottenuta da Cpi nelle recenti elezioni di Bolzano –, dall’altro aggredisce (e uccide, come nel caso di Killah P) compagni e immigrati e stringe legami con polizia e criminalità organizzata. La scelta di Casapound, quindi, è stata quella di presentarsi secondo la canonica doppia declinazione di partito di “lotta” (e mai virgolette furono più azzeccate) e di “governo”: in questa ottica, siamo sicuri che dichiarazioni come quelle sui 150 pronti a mettere a ferro e fuoco la Snia o aggressioni che a un occhio superficiale potrebbero apparire come un autogol o come opera di «schegge impazzite» – come quella a tre ragazzi, qualche giorno fa, al Pigneto – facciano in realtà parte di una ben precisa tattica, che cerca di coniugare la necessità di avere un’immagine “presentabile” da vendere ai media per avervi accesso e quella di dare soddisfazione a una “base” becera e poco disposta a lasciar correre dopo la cacciata di qualche giorno prima da via dell’Acqua Bullicante.

Parte di questa tattica è anche la loro capacità di affermare e sostenere tutto e il contrario di tutto, spesso in rapida successione: l’essere un sistema di idee eclettico e poco strutturato, caratterizzato da posizioni variabili e spesso contraddittorie, è del resto una caratteristica storica del fascismo e dei neofascismi, il cui unico tratto unificante è la posizione corporativista e ostile alla lotta di classe, in nome di presunti interessi comuni della cosiddetta «classe dei produttori». Ad esempio, pubblicamente Casapound – e anche in questo caso l’intervista di Di Stefano a Omnibus è davvero esemplare – si presenta come un’organizzazione non omofoba: anzi, il candidato sindaco di Roma ha affermato di considerare la recente legge sulle unioni civili «troppo moderata» perché non prevede un vero matrimonio per gli omosessuali, non parla di amore e non implica l’obbligo di fedeltà. Pur osteggiando l’adozione per le coppie omosessuali, Di Stefano si presenta così molto meno becero di gran parte dello schieramento politico italiano: del resto, già nel 2009  Casapound promuoveva incontri con la deputata piddina Anna Paola Concia che, negli anni, non ha fatto altro che legittimarla. Eppure, nonostante questo, partecipano anche al Family Day, opponendosi alla «caccia alle streghe contro l’omofobia».

Allo stesso modo, Casapound si presenta come non razzista: anzi, dice Di Stefano, ben 10-15 (??) militanti dell’organizzazione sono immigrati di seconda generazione, fieri delle loro origini. Questo non dovrebbe stupire nessuno: il razzismo di Casapound non è certamente di tipo biologico, quanto piuttosto culturale (oltre che strumentale). Quello che invece potrebbe sembrare, se non li conoscessimo, un po’ sorprendente è che tutto questo presunto a-razzismo si traduca in slogan come «Casa, lavoro, scuola, stato sociale: prima gli italiani» e «Basta immigrazione» o in legami internazionali come quelli con gli spagnoli di Hogar Social che, ad esempio, distribuiscono aiuti solo agli spagnoli di nazionalità e di origine, rifiutando quindi anche le seconde generazioni. Che, poi, è la stessa posizione di Cpi, laddove il suo candidato a sindaco di Roma afferma che «per noi c’è comunque una differenza [con gli immigrati regolari, ndr], l’italiano deve venire prima nelle graduatorie dei servizi pubblici, vogliamo che sia un titolo di accesso prioritario»: se non è discriminazione questa…

E, ancora, Di Stefano cerca di dare un’immagine di Cpi che neghi ogni fascinazione per il nazismo, facendo anzi riferimento agli errori fatti dal fascismo nel passato (vedi) – ma ne hanno fatti anche i partigiani «come dimostrato da Pansa», si affretta a chiarire – e invitando l’Anpi a discutere con loro del NO alla riforma costituzionale. Che poi sia strettamente legato ad Alba dorata, che ha una tale ammirazione per Hitler e per il nazismo da avere come simbolo una svastica, non sembra essere un problema.
Allo stesso modo, Cpi rifiuta anche la rappresentazione di organizzazione sessista e machista, perché alcuni dei loro dirigenti sono oggi donne, come  Carlotta Chiaraluce – ex La Destra, oggi leader di Casapound a Ostia e nel X Municipio e terza candidata (in ordine non alfabetico, dopo i fratelli Di Stefano) nella lista di Cpi alle comunali – o Emmanuela Florino, figlia d’arte a capo del gruppo napoletano.

A ben vedere, però, le cose stanno diversamente. Ad esempio, il loro presunto a-machismo mostra tutta la sua inconsistenza quando si stracciano i capelli per i cattivi dei centri sociali che avrebbero aggredito un disabile – e non insistiamo su quanto sia osceno farsi la campagna elettorale sull’inviolabilità degli invalidi dopo essere stati promotori, negli anni passati, di gesti come questo – e delle donne. Forse sembrerà strano, ma noi abbiamo sempre pensato alle donne impegnate in politica come militanti, non come donne da proteggere e tutelare: e, comunque, non costituiscono “categorie protette” che vanno in coppia con i disabili. Essere una donna, per gli anti-sessisti, non è qualcosa di equiparabile a una disabilità.

Un altro episodio di chiara schizofrenia è rappresentato dal ruolo giocato da Casapound nella condanna dell’atroce stupro, avvenuto in un accampamento abusivo al Prenestino, di Besjana Kosturi, una ragazza di origine albanese e musulmana a cui va anche tutta la nostra solidarietà (quella che non ha bisogno delle telecamere di Quinta colonna per manifestarsi). Se a Roma prendono le parti di una ragazza di religione musulmana, infatti, in campo internazionale sono invece strettamente legati a Hogar Social, il gruppo neofascista di Madrid che proprio a Cpi si è ispirato e che assalta le moschee della capitale spagnola con lo slogan «Moschee fuori dall’Europa». E alleati sono pure dei neofascisti ungheresi di Alternativ Europa: il gruppo fa riferimento alla difesa degli ideali, del sistema di valori e della cultura europei ed è marcatamente islamofobo, come dimostra la diffusione di manifesti con scritto «Fuck Islam» o le grafiche che raffigurano una donna bionda –  l’Europa – che caccia a calci un cinghiale col Corano in mano che rappresenta i musulmani (vedi). Il manifesto di Alternativ Europa che chiamava a manifestare il 21 maggio rappresentava, tra l’altro, proprio una moschea sbarrata (vedi). Allo stesso modo, sembra anomala tutta questa solidarietà – a uso e consumo delle telecamere e della campagna elettorale – per le vittime degli stupri: erano infatti proprio militanti di Casapound quelli che, a Napoli, sono stati intercettati mentre facevano affermazioni come «quella studentessa ebrea mi “stizza”. Io a questa qua la devo vattere (picchiare) o la picchio o la stupro e le faccio uscire il sangue dal culo» (leggi).

Insomma, siamo davanti a un caso di sdoppiamento della personalità: da un lato solidarizzano con le vittime degli stupri, dall’altro fanno propria la cultura dello stupro; da un lato sono alleati di chi si oppone all’«islamizzazione dell’Europa» e considera i musulmani – citiamo – come le «orde barbariche moderne» e dall’altro sono solidali con una ragazza fieramente musulmana. Potrebbe sembrare anomalo, ma Casapound, appunto, è in grado di sostenere tutto e il contrario di tutto, di strumentalizzare ogni vicenda per mostrare un’immagine di sé costruita a beneficio dei mass media. Ed è così che sono in grado perfino di citare Marx, per bocca di Gianluca Iannone (vedi): che lo fa malissimo (oh, Gianlu, si chiama «esercito industriale di riserva», non «esercito di sostituzione capitalista»: siamo certi che se ti sforzi ce la fai pure tu a ricordarti quattro parole senza sbagliarne la metà), ricalcando male alcune bislacche elucubrazioni di Diego Fusaro (leggi e leggi), eppure lo ha fatto ed è stato ripreso dal sito del quotidiano più letto in Italia. Ed è così che dicono di aspirare addirittura alla rivoluzione e non a ricercare il voto moderato, come in una comparsata di Di Stefano alla trasmissione In onda di qualche mese fa.

Questa auto-rappresentazione di Casapound, la cui diffusione è facilitata dai media, dimostra insomma quanto sia insufficiente la retorica antifascista quando riduce l’opposizione a essa ad antisessismo, antiomofobia e antirazzismo – o, complessivamente, a tematiche riconducibili alla sfera dei diritti civili –, all’affronto alla Resistenza di settanta e passa anni fa, al giudizio sulle leggi razziali o sull’alleanza con Hitler: componenti senz’altro fondanti dell’antifascismo stesso, ma armi retoriche decisamente spuntate quando si ha difronte un Giano bifronte come quello rappresentato da questa organizzazione neofascista.

È inutile concentrare ancora l’attenzione su pratiche come la cinghiamattanza: per quanto possa sembrarci ridicola, alla fine, sono fatti loro. Come sono, del resto, insufficienti gli elenchi delle frequenti aggressioni di cui si sono resi autori: nonostante le condanne – anche delle ultime settimane, come quella confermata recentemente per l’aggressione all’Ardita o quella di qualche giorno fa per gli eventi di Tor Vergata del 2010, che ha visto la condanna di quattro di loro tra cui Andrea Antonini (a un anno, pena sospesa) e Francesco Polacchi (a un anno e quattro mesi, senza condizionale) – infatti, è difficile far passare come vili aggressori quelli che poi pubblicamente si spendono contro gli stupri e il degrado o rilasciano interviste a Playboy. Senza considerare che, in un’ottica strettamente militante, sappiamo bene che per strada si prendono e si danno e che una condanna della violenza in quanto tale non può che essere controproducente.

Un terzo elemento da tenere presente – dopo la stretta organizzativa e il dualismo – è la strutturazione della loro attività. Almeno a Roma, infatti, dopo la scorsa campagna elettorale erano pressoché scomparsi: gli attacchinaggi si erano fatti rari e sporadici, la presenza nelle scuole e nelle università inconsistente.

L’unica attività su cui hanno investito sembra essere quella dei presunti comitati anti-degrado, spesso presentati sotto una veste fintamente a-politica, che si sono sviluppati a Roma dall’autunno 2014 (leggi). Ad esempio, sono stati episodi poco fortunati di questa politica il tentativo di eterodirezione di cortei come quello del novembre 2014 all’Eur contro il degrado, nel quale era in prima fila al megafono Danilo Cipressi (candidato nel 2013 nelle liste di Cpi e poi animatore del cosiddetto Fronte romano riscossa popolare), e l’esperienza del Comitato Beltramelli-Meda-Portonaccio: un tentativo così sfortunato che il suo capo, Fabrizio Montanini, candidato alle elezioni del 2013 nelle liste di Casapound, a questa tornata elettorale si è presentato in una lista civica dal nome Difendiamo via Tiburtina. Non sono riusciti, quindi, in questi casi a ripetere i successi del passato, quando dai comitati di quartiere hanno tirato fuori personaggi come Giuseppe De Silvestre, ora candidato al V Municipio.

In ogni caso, si tratta di un continuo soffiare sul fuoco agitando le questioni del degrado e dell’opposizione all’immigrazione. La campagna elettorale di Casapound, infatti, è iniziata ed entrata nel vivo già l’estate scorsa, con le «proteste» contro il centro d’accoglienza di Casale San Nicola (leggi), e continua, ancora oggi, ad esempio con la «protesta» contro il centro di via del Frantoio, al Tiburtino III (leggi 1, 2 e 3): in questo caso, Casapound ha pensato bene di sostituirsi alla polizia (chi si somiglia si piglia, si dice), mettendosi in presidio permanente davanti al centro, controllando i documenti a chi entrava e usciva. La tattica di Cpi risulta chiara: cercare dei centri provvisori o in chiusura o con gli appalti in scadenza, agitare un supposto problema di degrado e un presunto malessere dei cittadini, festeggiare un’eventuale successo nel caso in cui – per ragioni amministrative e non relative all’attività dell’organizzazione neofascista – i centri vengano chiusi. Si tratta, del resto, della stessa modalità messa in campo in occasione dello sgombero del campo rom di via dei Mirri, festeggiata da Casapound come un proprio successo (leggi). Nel frattempo, i militanti di Cpi hanno iniziato a organizzare ronde notturne in giro per la città, come prevedono anche nel loro programma elettorale: dietro la scusa dell’opposizione a criminalità e degrado, continuano così a giocare ai poliziotti.

Rimane, ora, da chiedersi cosa faccia Casapound nei mesi in cui la sua attività sembra in standby. La risposta è, tutto sommato, semplice: fanno (o moltiplicano) soldi. E i soldi, come sa chiunque si autofinanzi l’attività politica, sono fondamentali. Facciamo un esempio: più o meno ogni partecipante di Cpi al corteo di sabato 21 teneva una bandiera in mano; ponendo che ognuna di essa sia costata 2,5 euro fanno 2.000/2.500 euro. Una cifra chiaramente fuori dalla portata di un’organizzazione politica che si basi totalmente sull’autofinanziamento, anche nel caso in cui si sommasse ad esso il ricavato di iniziative «benefiche» come Voi siete leggenda (leggi). E, infatti, l’attività dell’organizzazione non si può basare solo su questo: qualcosa deve necessariamente derivare dalle sempre più numerose attività commerciali di molti dei suoi esponenti. Parliamo di linee di abbigliamento, trattorie, bistrot francesi, ristoranti spagnoli. Fin qui niente di male, o quasi: a pensar bene, saranno ricchi di famiglia per potersi permettere tutti questi investimenti. O forse avere a che fare con paesi come la Birmania, grande produttore di pietre preziose e di eroina, aiuta a pensare in grande… Tuttavia, nelle ultime settimane, lo scandalo dei Panama Papers ha fatto emergere che uno dei frequentatori e animatori di queste attività commerciali,  il fascista francese Frédéric Chatillon, è al centro di un sistema di trasferimenti illeciti di denaro a Hong Kong, Singapore, Panama (leggi). Il che, ancora una volta, non significa nulla.

Nulla, ma tuttavia potrebbe costituire uno dei tasselli di un puzzle – che non sta a noi ricostruire, anche perché ci mancano molti pezzi – dall’aspetto inquietante. Se, infatti, non c’è nulla di male ad aprire locali o a frequentare fascisti francesi che – di certo non palesemente – riciclano denaro, è anche vero che alcuni fatti che riguardano Casapound e che saltuariamente salgono agli onori delle cronache sono a dir poco strani. In ordine sparso:

  • Poche settimane fa, il vicepresidente di Casapound Andrea Antonini, ex consigliere dell’ex XX Municipio, e il responsabile del loro gruppo di protezione civile Pietro Casasanta sono stati condannati per aver procurato documenti falsi al narcotrafficante, latitante e legato alla camorra, Mario Santafede (leggi);
  • Lo stesso Andrea Antonini, nel 2011, era stato gambizzato in circostanze misteriose (leggi): si parlò allora di scambio di persona. Le gambizzazioni sembrano, comunque, essere abbastanza frequenti tra le persone con cui entra in contatto Casapound: nel 2012, ad esempio, fu gambizzato Francesco Bianco, ex militante dei Nar, e nel corso delle indagini furono perquisiti Casapound e Gianluca Iannone, che con il ferito aveva avuto una discussione sul destino di Acca Larentia (leggi 1 e 2);
  • Nel luglio 2014, fu ucciso Silvio Fanella, considerato il tesoriere di Gennaro Mokbel, l’imprenditore romano legato alla destra e all’ndrangheta e condannato per riciclaggio (leggi). Tra gli assassini, un giovane legato a Casapound;
  • Negli ultimi mesi, a Ostia, si è sempre più approfondito il rapporto tra Casapound e il clan degli Spada, un’organizzazione criminale dedita all’usura e allo spaccio, a cui è stata recentemente contestata l’aggravante mafiosa (leggi). Con gli Spada, a Ostia, Casapound organizza manifestazioni in piazza (leggi), oltre a portare solidarietà alla famiglia ogni qual volta vengono colpiti da indagini e sequestri di beni. Gli Spada, tra l’altro, sono una famiglia di rom italiani: alcuni rom, evidentemente, a Casapound piacciono. E non ci sorprenderebbe se a Ostia Cpi avesse un risultato elettorale migliore che altrove…

Anche se presunti rapporti tra l’estrema destra e le organizzazioni criminali non desterebbero stupore ma si inserirebbero anzi nel solco della tradizione, sono fatti che presi isolatamente non vogliono dire niente: certo, si tratta di una serie di coincidenze straordinaria. Ma non sta a noi, appunto, il compito di ricostruire il puzzle. Se fossimo giornalisti, però, di domande «scomode» da porre a Casapound ce ne verrebbero in mente molte. Per questo va evidenziata l’enorme responsabilità dei media nel porre ai suoi esponenti solo domande scontate (anche quando critiche), che non indagano la natura del fenomeno e che gli permettono di dare l’immagine di una forza politica «normale», anche se magari un po’ esuberante: e così si «normalizza» non solo Casapound, ma anche il fascismo che i suoi esponenti e i suoi organi di informazione rivendicano con sempre maggiore convinzione (e anche per questo non riusciamo a capire il successo di articoli in cui vengono mostrati fascisti – che rivendicano di esserlo, non cripto-fascisti – che fanno i fascisti, ad esempio lasciandosi andare in saluti romani), con lo scopo di legittimarlo come una forza politica come tutte le altre. È difficile stabilire se quella dei giornalisti sia ignoranza o malafede, ma comunque se fai il giornalista hai una responsabilità politica: invitare Di Stefano – che ormai occupa quel posto di «destra estrema» che fu di Forza Nuova e di Roberto Fiore, in questa tornata elettorale completamente spariti (qualcuno ha sentito parlare della candidatura di Afredo Iorio, sostenuto da Forza Nuova e dalla nuova filiazione di Giuliano Castellino, di cui sarebbe superfluo citare il nome perché tanto lo cambia mensilmente?) – e farlo parlare praticamente senza contraddittorio, come nel caso della puntata di Omnibus già citata,  non può essere giustificato dietro l’ingenuità o l’ignoranza.

Parimenti responsabile della legittimazione di Casapound è anche il governo. Il ministro Maria Elena Boschi, con la sua sconclusionata accusa contro coloro che voteranno NO al referendum costituzionale di «fare come Casapound» ha, infatti, fatto un’enorme pubblicità all’organizzazione neofascista, portando moltissimi italiani – che non la conoscevano minimamente – a chiedersi cosa fosse: non a caso, Casapound ha ringraziato il ministro con un mazzo di fiori. Inoltre, con queste parole, ha presentato Cpi come un movimento «antagonista» e «antisistema», facendogli occupare il posto che solitamente era dato ai compagni, ai centri sociali, persino ai black bloc. La scelta del ministro, ovviamente, non è casuale: visto che Casapound non rappresenta una vera alternativa, non costituisce nemmeno un pericolo per il governo. Il partito della nazione, del resto, non può ammettere nemici alla propria sinistra, come dimostra l’assurda polemica sui «veri partigiani». D’altro canto, proprio perché la polarizzazione dello schieramento politico si è attenuata, sono diminuite anche le voci a difesa di Casapound, tanto a destra quanto a «“sinistra”»  (leggi 1 e 2). Ed è per questo, in definitiva, che non si corre alcun pericolo di instaurazione di un regime fascista: l’esistenza dei neofascisti è limitata all’essere funzionale alle classi dirigenti e, al momento attuale, esse non hanno alcun bisogno di una crescita ulteriore e di un’affermazione neofascista.

Siamo certi, anzi, che anche il risultato elettorale di Casapound alle amministrative di Roma sarà scarso, nonostante i suoi dirigenti abbiano affermato di puntare a triplicare i circa 7mila voti del 2013. Del resto, proprio perché Roma è tradizionalmente un laboratorio del neofascismo, Cpi si dividerà i voti con altre formazioni di estrema destra: la joint venture tra Forza Nuova e Castellino; la lista di Storace, che sostiene Marchini; Giorgia Meloni, alla quale Simone Di Stefano ricorda di aver aperto di persona la porta della sezione del Msi della Garbatella quando iniziò a fare politica. Qualcosa dei voti del bacino di utenza solito dei neofascisti sarà poi rosicchiato anche dal M5S: e Virginia Raggi sembra esserne talmente consapevole che glissa sull’intitolazione di una strada ad Almirante.
Senza minimizzare e senza attribuirgli maggiore forza e presenza di quanto abbia, se questo è il fascismo del terzo millennio, anche l’antifascismo del terzo millennio – nella sua triplice declinazione culturale, sociale e militante – richiede un ripensamento di formule e modalità. Che parta dall’analisi concreta della realtà concreta e non dall’immagine pubblica che ci piacerebbe che i fascisti assumessero.

da militant-blog

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