Lo spettro di Louise Michel si aggira sulle barricate
Chissà cosa ne penserebbe Louise Michel. Lei che di barricate e rivolte se ne intendeva e si sentiva “come l’ago di una bussola che, sconvolto da una tempesta, cerca il nord. Il mio nord era la rivoluzione” .
Scampata, una tra i pochi, alla repressione sanguinaria che costò la vita a migliaia e migliaia di Comunardi (dopo la sconfitta della Comune nel 1871), la combattente libertaria, già blanquista, completò il suo percorso verso l’anarchismo nel corso del viaggio per mare che la vide deportata in Nuova Caledonia.
Da subito, solidarizzò con la popolazione indigena, i Kanaki, oppressi e sfruttati dal colonialismo francese. Per tale ragione , oltre che dai rivoluzionari internazionali (non solo anarchici) e dalle femministe più radicali (non “borghesi”), viene ricordata dai Kanaki come una loro compagna di lotta. Per aver saputo coniugare, non è da tutti, le lotte dei lavoratori salariati per la giustizia sociale con quelle per l’autodeterminazione dei popoli. Creando un giornale (“Petites Affiches de la Nouvelle-Caledonie”) e scrivendo una raccolta di “Légendes et chansons de gestes canaques”. Ma soprattutto schierandosi al loro fianco – diversamente dalla maggioranza dei deportati che temevano ritorsioni dalle autorità – nel corso della rivolta del 1878. Dopo che nel 1880 le era stata concessa la grazia (non richiesta), una folla di indigeni tentò fisicamente di impedirle di lasciare l’isola. Dove comunque, come aveva promesso, tentò – se pur invano – varie volte di fare ritorno. In Francia proseguì nella sua militanza venendo – in almeno altre tre occasioni – nuovamente incarcerata. Accusata, in particolare, dell’assalto ai forni (o “esproprio proletario” che dir si voglia) ai danni di alcune panetterie durante uno manifestazione di disoccupati organizzata con Emile Pouget (teorico dell’anarco-sindacalismo e del sabotaggio). Louise subì anche un attentato in cui rimase leggermente ferita (da parte di un “estremista di destra” dell’epoca), ma non volle – per spirito libertario e umanitario – costituirsi parte civile.
A quasi un secolo e mezzo di distanza, la Nuova Caledonia rimane inquieta e non omologata. O almeno così sembrerebbe.
Lunedì 7 dicembre, al mattino, in una località nel sud dell’arcipelago, un folto gruppo di manifestanti (per la maggior parte esponenti del collettivo “usine du sud: usine pays”) si è scontrato con la polizia protestando per la ventilata vendita a un non meglio precisato “consorzio” di imprenditori, sia locali (francesi, prestanome…?) che internazionali (sentite anche voi odor di multinazionali?) della grande fabbrica di nickel che sorge nei pressi del giacimento di Goro. I preliminari sarebbero a buon punto e – pare – i primi accordi potrebbero già essere stati sottoscritti. Per cui ormai sarebbe solo questione di giorni.
Gli incidenti hanno interessato anche il battello che porta i lavoratori di Vale all’azienda. “Rotti gli ormeggi” – e non in senso metaforico – per mano dei manifestanti, il battello è andato lungamente alla deriva ed è stato recuperato solo grazie all’intervento del soccorso marino.
Gli scontri successivi in diversi punti di Numea hanno visto le granate lacrimogene della polizia contrapporsi al lancio di pietre degli “insorti”. Con il solito corollario di auto incendiate e tentativi di barricate. Alcune strade sono rimaste bloccate e la circolazione si è fermata a causa dei numerosi imbottigliamenti. Un gendarme e un vigile sono rimasti feriti. Altre barricate intanto venivano costruite nel corso di analoghe proteste nel comune di Mont-Dore e in quello di Bourai. Negli scontri avvenuti davanti alla fabbrica il giorno prima – domenica 6 dicembre – almeno altri sei gendarmi erano rimasti feriti.
Gianni Sartori