In quattro poliziotti accusati di omicidio colposo hanno fatto ricorso fino all’ultima istanza. Oggi la giustizia sancirà la verità sulla morte di un ragazzo che è diventato simbolo della malapolizia
Oggi ci saranno parecchie persone alla IV sezione della Corte di Cassazione a Roma. I giudici decideranno sul ricorso dei quattro poliziotti della questura di Ferrara accusati di aver ucciso il 25 settembre dl 2005 Federico Aldrovandi, un ragazzo di diciotto anni incontrato sulla loro strada.
“Tenete per mano Federico”, ha chiesto dal suo profilo Faceebok la madre, Patrizia Moretti, che per la prima volta oggi non potrà essere in aula perché si trova in ospedale. Dopo sei anni passati a combattere giorno per giorno per vedere riconosciuta un po’ di giustizia a quel figlio ammazzto.
Un dolore lacerante, immenso, inconsolabile. Che la famiglia di Federico ha saputo trasformare in una richiesta di giustizia. Semplice, fortissima. Tanto che questa storia è diventata un caso nazionale. E ha rappresentato un precedente nella giurisprudenza italiana; ha aperto un varco nel muro invisibile che spesso protegge gli agenti delle forze dell’ordine che si macchiano di reati di questo tipo.
In primo grado e in appello, infatti, i quattro poliziotti sono stati condannati per omicidio colposo. Vista la vicenda, si tratta di una fattispecie di reato decisamente “lieve”. Eppure è stata una “vittoria”, visto che subito dopo la morte di Federico la questura ha cercato di coprire le responsabilità dei suoi dipendenti, e la Procura non ha brillato – diciamo così – per efficienza. Soltanto l’impegno della famiglia di Federico – Patrizia, il padre Lino e il fratello Stefano – del pool di avvocati “guidato” da Fabio Anselmo, di militanti di sinistra di Ferrara e di alcuni organi di stampa (pochissimi) ha imposto che le indagini fossero condotte seriamente.
E – alla fine – il quadro che ne è uscito è stato agghiacciante. Anche se non ancora del tutto chiaro: perché Federico si è trovato faccia a faccia con la polizia? La versione ufficiale, che le indagini non sono riuscite a smontare – anche se sia la sentenza di primo grado che quella di appello mettono in dubbio questa ricostruzione – vuole che le volanti Alfa 2 e Alfa 3 della questura di Ferrara si recarono a via dell’Ippodromo, dove è morto Federico, perché i vicini avevano chiamato sentendo schiamazzi per strada. Esistono molti indizi che suggeriscono la presenza della polizia in quella strada ben prima degli “schiamazzi”. E che quelle urle erano in realtà un’animata discussione tra Federico e almeno due poliziotti. Ma non ci sono prove. E gli agenti imputati hanno sempre, strenuamente, difeso la verità scritta nel verbale a poche ore dai fatti. Anche se le indagini, e successivi processi contro alcuni colleghi della questura accusati di aver dichiarato il falso, hanno senza alcun dubbio dimostrato che subito dopo la morte di Federico si fece di tutto per coprire quanto successo. Ma, purtroppo, qual è stata l’origine dell’incontro tra Federico e le volanti lo sanno solo i poliziotti. Finora, nessun testimone ha aperto bocca. Anche se – forse – esistono, perché via dell’Ippodromo è una strada densamente abitata.
In ogni caso il giudice di primo grado scrisse pagine memorabili nella motivazione della sentenza, che cominciavano così: “Il caso che il tribunale deve affrontare riguarda la morte di un diciottenne, studente, incensurato, integrato, di condotta regolare, inserito in una famiglia di persone perbene, padre appartenente ad un corpo di vigili urbani, madre impiegata comunale, un fratello più giovane, un nonno affettuoso al quale il ragazzo era molto legato. Tanti giovani studenti, ben educati, di buona famiglia, incensurati e di regolare condotta, con i problemi esistenziali che caratterizzano i diciottenni di tutte le epoche, possono morire a quell età. Pochissimi, o forse nessuno, muore nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi: all alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna effettiva ragione”.
Oggi la Cassazione ci dirà come finisce questa storia. Almeno nelle aulee di tribunale.
Cinzia Gubbini da il manifesto
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