La giornalista Simona Mazza all’indomani della vergognosa sentenza sull’omicidio di Stefano Cucchi ha scritto un articolo per il giornale con cui collabora. L’editore ha bloccato la pubblicazione, temendo querele in quando l’articolo parla esplicidamente di “tortura”.
Il caso Cucchi giunge al termine e l’epilogo non è certo dei più felici in un paese che si professa democratico, in cui tuttavia non è previsto il reato di tortura.
La condanna emessa dalla terza Corte d’Assise di Roma parla chiaro: Assolti agenti e infermieri perché il fatto non sussiste; qualche condanna ai medici per omicidio colposo.
Vorrebbero in sostanza farci passare la morte di Stefano Cucchi come uno dei tanti casi di malasanità, con l’unica specificità dell’essersi verificato in un luogo di detenzione, derubricando, di fatto, la realtà di un giovane tossicodipendente che a poche ore di distanza dall’arresto muore, in condizioni fisiche spaventose (pesava circa 40Kg), coperto da evidenti lesioni provocate da terzi, senza aver avuto nemmeno la possibilità di parlare con familiari e avvocati.
Stefano è morto infatti in seguito a un fermo per possesso di droga, portato in una caserma dei carabinieri, tradotto in carcere, condotto in tribunale, ricoverato in un paio di ospedali. Decine di uomini e donne con responsabilità pubbliche si sono avvicendati nel prenderlo in consegna.
La sentenza invece copre quasi tutti i responsabili: eppure sono in tanti a pensare che il caso non solo non debba essere considerato “normale”, né possa essere archiviato senza ulteriori accertamenti e aggravanti giudiziarie per il colpevole.
In tutto ciò, II pubblico ministero che indagava sulle violenze che avvenivano nel carcere di Teramo, dove un graduato della polizia penitenziaria diceva “si pesta di sotto”, ha dovuto archiviare tutto, ma questa è una cosa che nessuno potrà mai provare.
Tante le contraddizioni emerse sulla vicenda, a cominciare dal fatto che le forze dell’ordine hanno parlato di un ragazzo manifestamente violento, tesi che cozza con l’immagine che emerge da una dichiarazione ufficiale: «Presenta ecchimosi sacrocoggicea, tumefazione del volto bilateralmente periorbitaria, algie alla deambulazione e arti inferiori,».)
Arriva poi la presunta dichiarazione spontanea di Stefano il quale dichiara che i segni sul suo corpo, sono da imputare a una caduta, tesi confutata dalla difesa perché tipica affermazione con cui si giustificano i segni di botte nei luoghi di privazione della libertà.
Questo è il punto focale dell’intera vicenda, ovvero capire il nesso causa-effetto, senza frammentare o perdere passi essenziali nella ricostruzione della storia. Bisogna capire in sostanza da chi sono state prodotte realmente le lesioni sul corpo del giovane e perché. Sono state un elemento aggiuntivo o determinante della morte o da sole non potevano provocarla?
Unico dato certo è che Stefano Cucchi non avesse trascorso quelle ore, in quelle condizioni in un luogo di detenzione, oggi probabilmente sarebbe vivo.
Al giovane sono state negate, infatti, tutte le possibilità di assistenza cui ogni cittadino “normale” ha diritto per la tutela della sua persona, proprio dalle istituzioni che dovrebbero farsene garanti. Anzi, carabinieri, polizia penitenziaria, direttore del carcere, medici penitenziari e 118, hanno fatto quadrato affinché nessun diritto fosse garantito al giovane. A tutto ciò si aggiunge oggi la sentenza dei giudici.
Alla luce di queste considerazioni risulta chiaro che non si tratti di semplice incuria, ma di evidente volontà di giustizialismo estremo e mal gestito nei confronti di un tossicodipendente.
Al di la della questione, risulta chiaro che in Italia esiste un vuoto giuridico assolutamente rilevante, in materia di tortura.
Nonostante, infatti, il nostro paese abbia ratificato la Convenzione di Ginevra nel 1984 e, la Convenzione delle Nazioni Unite del novembre 1988, che afferma” Ogni Stato parte adotta misure legislative, amministrative, giudiziarie e altre misure efficaci per impedire che atti di tortura siano commessi in qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione” ad oggi non esiste il reato di tortura.
Per l’Onu la tortura si compone di quattro elementi: inflizione di un’acuta sofferenza fisica e/o psichica, responsabilità diretta di un funzionario dell’apparato pubblico, non liceità della sanzione e intenzionalità. Mentre la sanzione punitiva è un concetto che si sta facendo largo. La tortura come mezzo per ottenere informazioni o per ripristinare l’ordine.
In aggiunta, anche la nostra Costituzione prevede tale delitto: la garanzia positiva dell’obbligo di punirla come delitto è, infatti, prescritta in Italia dall’art. 13 comma 4 che afferma che ‘è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà’”.
Mentre i Paesi civili puniscono la tortura, in Italia siamo anni luce dagli obiettivi minimi. Molte le associazioni che sin battono affinché venga istituito il reato di tortura tra cui citiamo Antigone, che con altre associazioni e comitati sta promuovendo una raccolta firme per l’introduzione di questa legge: uno strumento per fare ulteriore pressione verso istituzioni che si sono dimostrate incredibilmente sorde al tema. Con essa anche una per l’abrogazione della legge Fini Giovanardi sulle droghe e l’ultima, la terza, per una nuova normativa per il carcere dove s’introduce ad esempio la figura del difensore civico. Il libro di Gonnella ha questo merito: farci riflettere su un tema, quello della tortura, presente nella nostra società e più vicino di quanto pensiamo. A tutti noi.
Il 26 giugno è la giornata indetta dall’Onu per ricordare le vittime della tortura. Ricordiamo Stefano firmando in massa. Ci vogliono 50 mila firme per poi indurre il Parlamento a legiferare.
Simona Mazza
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