Omissione di soccorso come metodo sistematico, il naufragio non è per disgrazia
Dal racconto dei sopravvissuti: il naufragio forse causato da una operazione folle di rimorchio da parte della guardia costiera greca che dopo non essersi mossa tutto il giorno, di notte ha tentato un traino senza precauzioni.
di Luca Casarini
Centinaia di persone a braccia alzate per chiedere aiuto dalla barca quando ancora naviga. La foto scattata da un aereo di Frontex, l’ultima immagine degli ultimi morti dell’ultima strage nel Mediterraneo, basta da sola a spiegare perché la maggior parte di quelle persone a braccia alzate ora è in fondo al mare.
Nessuno li ha soccorsi. Chiedevano aiuto e nessuno li ha salvati. Su quella barca di trenta metri erano in 750. Almeno un centinaio i bambini chiusi nella stiva con le donne. Hanno fatto la fine dei topi, Intrappolati nella pancia della nave. Novanta corpi recuperati finora, un centinaio di superstiti. Gli altri sono stati inghiottiti dall’acqua. È la pratica sistematica dell’omissione di soccorso. È successo l’altra notte a 47 miglia a largo dalle coste greche, come il 26 febbraio a meno di cento metri dalla riva calabrese di Cutro. È l’omissione di soccorso coperta dallo schema procedurale del law enforcement, dell’operazione di polizia: cioè considerare i naufraghi non naufraghi ma migranti illegali in transito. Così da non salvarli.
Un dato sconcertante emerso delle testimonianze raccolte tra i superstiti a Kalamata rende ancor più grave il quadro delle responsabilità. Da quanto raccontano i sopravvissuti si deduce che il naufragio sia stato causato dal rimorchio del peschereccio – con le cime e senza nessuna precauzione – da parte della motovedetta dalla Hellenic Coast Guard. Manovra pericolosissima. Non va fatta senza appoggio ai lati. E soprattutto: perché aspettare la notte? Se uno decide il traino, mette due motovedette una per lato sul barcone. Distribuisce i lifejacket. Avvisa tutti. Prepara gli uomini rana. Mette un elicottero sopra. E non lo fa di notte.
La guardia costiera sapeva che non c’era chi governava il barcone: qualcuno di loro è salito? Tiravano un barcone senza governo. C’era il mare piatto, sette nodi di vento. Non è impossibile che intendessero trainare la barca verso la Sar italiana, solo questo spiegherebbe una manovra così pericolosa, di notte e in quel modo. Questa barca parte presumibilmente la notte del 10 giugno da Tobruk, zona controllata dal generale Haftar e parte durante l’apice dell’operazione di polizia di rastrellamento denunciata dall’Onu, riportata dall’Unità. Quelle retate si svolgono in modo massiccio ad est, nel territorio di Haftar.
C’è una spinta alla partenza sempre quando ci sono queste operazioni di polizia. Spinte dovute o a retate o a intensificazione dell’attività di polizia. Questi sono i veri pull factor: si parte prima che si può e a prescindere dalle condizioni del mare. L’alternativa è quella di essere catturati e messi in un centro di detenzione. Questo avviene spesso in particolare in Libia e in Tunisia, ma anche sulla rotta balcanica. Le retate, la pressione poliziesca che viene richiesta dall’Unione europea, è uno dei maggiori fattori di “pull factor”, altro che le navi di soccorso. Spinge la gente, e i trafficanti locali, a fare in fretta, a scappare in ogni modo. A scapito della già inesistente sicurezza. E per più soldi: con la pistola puntata alla tempia si accettano anche aumenti del prezzo del viaggio. I viaggi diventano con meno barche e più persone a bordo di ogni barca. Anche l’acqua a disposizione dei passeggeri viene ridotta: toglie spazio e ogni metro quadro che si può riempire con esseri umani vale un mucchio di dollari.
Haftar ha fatto fare quel rastrellamento di massa di migranti dove comanda lui anche e soprattutto per mostrare all’Europa e all’Italia – ricordate il 4 e 5 maggio scorsi ricevuto con tutti gli onori dal governo Meloni a Roma – la sua affidabilità per provare che merita la marea di soldi, promessagli per evitare che quei migranti partano, per fermarli prima che partano. Stiamo spingendo le persone a scappare e in ogni condizione. E più in fretta possibile. Non è un caso che parte una barca di 30 metri con 750 persone a bordo. Il peschereccio naufragato aveva problemi al motore poche ore dopo la partenza.
I sopravvissuti hanno raccontato che alcuni migranti hanno chiesto di tornare indietro, alcuni di loro sono stati picchiati. Martedì non c’era più acqua potabile a bordo, ci sono stati svenimenti a causa della disidratazione. Alcune delle persone a bordo hanno cominciato a perdere i sensi. Quando attraverso il passaparola a bordo s’è saputo che giù nella stiva due bambini e quattro altri migranti erano morti, il capitano ha avuto paura di una rivolta. Dai testimoni s’è saputo che, dopo aver girato la prua verso le coste greche, avrebbe abbandonato la nave calando una scialuppa. Dai tracciati sui radar pare risulti da quel momento un andamento a senza rotta certa.
È certo che quando la nave salpa dalla Cirenaica la destinazione decisa è l’Italia. La rotta è quella. Ma per arrivare si deve attraversare la Grecia e le acque internazionali nelle quali un eventuale soccorso spetterebbe a Malta in teoria, secondo la ripartizione teorica delle competenze nei soccorsi in mare. Il punto è che le persone vogliono arrivare in Europa, i migranti sono terrorizzati dalla politica greca di respingimenti e affondamenti denunciata anche dal New York Times in un recente video dove si vede la polizia greca che prende le persone a terra e le butta in mezzo al mare, bambini compresi, lasciandole alla deriva. Molti migranti sanno che è pericoloso avere a che fare con la guardia costiera e con le autorità greche, per la politica disumana che i greci hanno di deportazione verso la Turchia, a Smirne, o verso le isole prigioni come Samos come Lesbo. Anche per questo puntano sull’Italia.
La Grecia sta volontariamente a braccia conserte, non interviene perché aspettano che le barche escano dalla Sar greca, dalla zona dove il soccorso compete teoricamente alla Grecia. Anche Malta fa così. Omettono i soccorsi in attesa che la barca esca dalle loro zone Sar. L’obiettivo è sempre quello: i migranti non devono sbarcare. Il peschereccio alle 9, 43 del 13 mattina avvisa che sono alla deriva, stanno male, non sanno cosa fare e chiedono aiuto. Alle 14 e 17 la prima chiamata ufficiale di Alarm phone che avvisa tutte le autorità competenti, a partire da Frontex. Tutti sanno che c’è questa situazione di altissimo rischio naufragio. Perché 750 persone stipate con 100 bambini nella stiva è già emergenza per rischio naufragio.
Nonostante questo le autorità greche sono immobili, anche il Centro soccorso in mare di Roma, il nostro Mrcc coordinato dalla Guardia costiera, chiede ad Atene di intervenire, ma non si muove nessuno. Non attivano il protocollo di soccorso. Cosa prevede il protocollo di soccorso? Per esempio che le motovedette affianchino a pacchetto il barcone e quindi innanzitutto lo mettano in sicurezza evitando il ribaltamento. Affiancarlo con due motovedette sarebbe stata la prassi tecnica immediata. Non lo fanno. Inviano una motovedetta che osserva la situazione da vicino ed è lì che i greci dicono “hanno rifiutato l’aiuto”. Ma qui non c’è un comandante del barcone a cui si chiede l’autorizzazione ad intervenire. Loro aspettano che la barca esca dalla Sar greca. A 47 miglia hanno due porti con mezzi attrezzati.
Potevano gettare in acqua dispositivi flottanti: zattere autogonfiabili e salvagente. la prima cosa in assoluto che si fa: distribuire giubbotti salvagente. Anche questa cosa potevano fare, e non l’hanno fatta. Si riducono i morti del 50 – 60 per cento anche solo gettando lifejackets..
Il naufragio avviene dopo la mezzanotte e non ci sono mezzi tranne i mercantili. Si dovrà capire come è avvenuto il naufragio e cosa hanno davvero fatto i mercantili.
Se è vero che per afferrare bottiglie d’acqua lanciate dai mercantili le persone a bordo si sono mosse pericolosamente e la nave, sovraccarica fino all’inverosimile, s’è rovesciata. Ma non è l’aspetto decisivo. Una barca di 30 metri con 750 persone è sempre a rischio! Il punto terribile è che i greci sanno che la situazione può precipitare ma decidono di monitorare invece che di intervenire in soccorso. È una pratica costante delle autorità greche e maltesi. È la pratica dell’omissione di soccorso. Come a Cutro.
da L’Unità
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