Operazione Renata. Storytelling provinciale per una strategia nazionale
- aprile 18, 2019
- in misure repressive, riflessioni
- Edit
Saranno andati a seguire i corsi della Scuola Holden di Baricco i registi dell’ultima operazione antiterrorismo contro gli anarchici trentini? Quello che è certo è che lo storytelling è molto migliorato rispetto all’analoga inchiesta per 270 bis inscenata in regione nel 2012.
A cominciare dal nome. All’epoca, come sceneggiatori di Boris in crisi di creatività, avevano tirato fuori dal cappello il latinismo: Ixodidae. Non fu esattamente un’idea geniale chiamare in causa il nome scientifico della “zecca”, reminiscenza dell’appellativo che i fascisti usano da sempre contro i compagni. Stavolta hanno scelto il più sobrio “operazione Renata”, dal nomignolo che affettuosamente gli arrestati usavano per indicare l’auto di uno di loro. A suggerire che persino quando maneggiano il ferro rovente del terrorismo, gli inquirenti si sforzano di non perdere la tenerezza.
Ma andiamo con ordine.
Il giorno 19 febbraio, prima dell’alba, 150 uomini fra polizia, carabinieri e squadre speciali (con tanto di passamontagna e giubbotto antiproiettile) coordinati dal Ros (il Raggruppamento Operativo Speciale dei carabinieri che esegue i mandati di cattura degli accusati di mafia o terrorismo) fanno irruzione in una quarantina tra abitazioni private, circoli, palestre popolari, locali e luoghi di lavoro fra Trento, Rovereto e Bolzano. Il risultato: una ventina di indagati (non è ancora stato reso noto il numero esatto), perquisizioni, sequestri (in un caso addirittura di un’intera abitazione, assimilata dagli inquirenti a “covo”, per quasi un mese) e sette arresti.
Le modalità dell’operazione sono brutali, più di quanto non traspaia dai video ufficiali. Persone svegliate alle quattro di notte da agenti armati, abitazioni di parenti, amici o anche solo conoscenti messe sottosopra, irregolarità diffuse e violenze (perquisizioni senza testimoni o effettuate di nascosto, in un caso addirittura l’indagato viene fatto inginocchiare con la testa appoggiata alla parete e con pistola puntata alla tempia). Probabilmente il tutto viene confezionato al fine di scioccare il più possibile la comunità politica di riferimento e criminalizzare preventivamente la stessa agli occhi dell’opinione pubblica (se vengono trattati alla stregua di mostri o mafiosi vuol dire che lo sono davvero).
D’altro canto, una così generosa infornata di arresti e perquisizioni, eseguiti con l’affiancamento alle truppe antiterrorismo delle troupes giornalistiche, sono solo la scena madre di un’operazione mediatico-poliziesca costruita come un banale action movie all’americana. Di quelli che, pur senza trovate particolarmente originali né interpretazioni attoriali davvero convincenti, sanno tuttavia procedere senza grossi cali di tensione narrativa.
Il prologo è di pochi giorni prima, quando viene dato grande risalto alla riunione straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza della città di Rovereto, convocata affinchè il prefetto Lombardi e il nuovo governatore provinciale leghista Fugatti possano ammonire tutti su quello che è il pericolo numero uno in città: gli anarchici. Si scoprirà poi che la conferenza era stata preceduta di un solo giorno dalla firma ai mandati di perquisizione e di arresto dell’operazione Renata.
Ma il vero colpo di scena avviene poche ore prima che scattino gli arresti. In una piccola stazione ferroviaria vicino Trento, dove già si era verificato un attacco incendiario attribuito agli anarchici, il rogo di una centralina elettrica paralizza il traffico per un paio d’ore. Così, mentre gli inviati dei giornali nei “covi della cellula terroristica” preparano il materiale per i titoli del giorno dopo, in redazione si lavora alacremente per annunciare in prima pagina a caratteri cubitali: ATTENTATO ALLA STAZIONE.
Piccolo spoiler: un paio di settimane dopo, in qualche trafiletto in ventesima pagina si è rettificato che l’incendio alla stazione non era di origine dolosa. Eppure, ecco come il quotidiano Adige aveva in prima battuta argomentato l’attribuzione agli anarchici del fatto: “un notevole quantitativo di carta è stato fatto bruciare accanto a una serie di centraline elettriche, che sono poi esplose per il calore. La porta del locale di servizio è stata forzata, come hanno verificato gli agenti della polizia locale giunti sul posto insieme ai pompieri”. Insomma,qualche malizioso potrebbe insinuare che, se qualcuno ha appiccato le fiamme, lo ha fatto per attirare l’attenzione sulla pericolosità degli anarchici proprio nel momento in cui si eseguiva l’operazione repressiva.
L’operazione “Renata”, secondo le parole espresse durante la conferenza stampa del Ros che si tiene a Roma il giorno degli arresti, sarebbe volta a sgominare una “associazione eversiva e terroristica” il cui fine è la sovversione dello stato mediante il compimento di numerosi atti di violenza “indiscriminata” e i cui membri sarebbero pronti perfino ad uccidere per portare avanti l’ideale di società anarchica.
Quest’ultimo particolare emergerebbe da un frammento di un’intercettazione ambientale nell’abitazione degli indagati, in cui viene captata una considerazione generale e piuttosto ovvia sulla rivoluzione (“come pensi di fare la rivoluzione senza ammazzare nessuno”), una dichiarazione che non sarebbe nemmeno di paternità degli arrestati. Eppure l’occasione è troppo ghiotta per non essere enfatizzata e strumentalizzata a volontà dagli organi di stampa che si prodigano in titoloni così smaccatamente sensazionalistici (“Erano pronti ad ammazzare”) da somigliare in maniera inquietante a quelli di un racconto distopico che avevamo fatto uscire su questo blog solo qualche mese fa.
Insomma, la costruzione mediatica-poliziesca di tutta l’operazione sembra presa dal manuale “come costruire il folk devil perfetto per una sonnolenta città di provincia”. Non vengono ripetuti gli errori di copione commessi con Ixodidae, in cui la scelta sia dei principali personaggi imputati, trentini e piuttosto conosciuti a livello locale (e non solo), sia della tempistica, letteralmente alla vigilia di una grossa manifestazione No Tav in Trentino, aveva portato il pubblico ad immedesimarsi più nel ruolo dell’antieroe che in quello dello sbirro.
Con Renata invece si agisce in un momento di relativa debolezza della conflittualità sociale. Per il ruolo dei “cattivi” si selezionano giovani compagni attivi nelle lotte (in quelle contro il Tav, ad esempio, ma anche in quelle antirazziste e a fianco dei lavoratori), ma poco noti fuori dal giro militante e quasi tutti “foresti” (ossia forestieri, in dialetto trentino. I giornali hanno più volte sottolineato come solo 2 dei 7 fossero trentini). In un tale contesto, la scelta di non mostrarli mai in foto e una simpatica intervista al parroco che li descrive come ragazzi che sembrano a postissimo, sembra lavorare a rinforzare il topos narrativo dell’“insospettabile terrorista della porta accanto”.
In conclusione, tutta l’operazione lavora (in maniera sufficientemente riuscita purtroppo) sulla performatività comunicativa. C’è una collaborazione evidente tra forze di polizia e giornalisti, non solo nella presentazione delle perquisizioni e degli arresti, ma anche nella scelta di quali aspetti evidenziare e quali mettere in secondo piano. L’accusa di terrorismo viene ripetuta a spron battuto sulle prime pagine e sui TG nazionali, diventando tag per categorizzare la ricerca delle notizie sugli arresti. Al contrario, quando il 19 marzo, si viene a sapere che in sede di riesame l’accusa di terrorismo è caduta, lasciando il posto a quella di associazione sovversiva, alla notizia non viene dato quasi nessun risalto.
Signori e signore, il nemico pubblico è servito!
Sarà veramente passato questo messaggio? In questi giorni i compagni e le compagne stanno moltiplicando gli sforzi nel cercare di spiegare l’entità delle accuse e della posta in gioco. Assemblee, comizi, presidi sotto le carceri dove sono stati portati i compagni e un corteo per le vie cittadine hanno espresso la determinazione nel difendere le persone e le pratiche per cui sono criminalizzate, rispedendo al mittente l’accusa di terrorismo.
Che gli sforzi raggiungano l’obiettivo dipende anche dal contributo di tutte e tutti nel dare concretezza alla solidarietà, anche da prospettive e con modalità diverse da quelle di chi è sotto inchiesta, nella consapevolezza che l’offensiva in corso ci riguarda tutti.
Contributo che sarà tanto più determinante quanto più saprà coinvolgere diverse aree politiche, militanti e non, e saprà guardare all’intera architettura che sostiene l’operazione repressiva, che non riguarda solo i processi o i mandati di cattura. Come vedremo meglio nella seconda parte di questo contributo, i padrini politici che intendono profittare di questo clima di caccia alle streghe o caccia la militante rivoluzionario sono parte del governo giallo verde, ministro dell’Interno in primis ma non solo.
Pezzi importanti del governo hanno patrocinato e parteciperanno ad una tre giorni di incontri a Verona, il 29, 30 e 31 marzo, giorni in cui i peggiori negazionisti, filofascisti e omofobi daranno convegno e propaganderanno le loro dottrine liberticide. Anche questa è repressione, anche di questo le strutture repressive si alimentano.
Sabato 30 marzo ci saranno due manifestazioni. Una si terrà a Torino, contro il clima plumbeo che si respira nella città piemontese (e non solo) e contro l’attacco a spazi sociali e realtà militanti accusate di reati associativi e messi in carcere. Lo stesso giorno, a Verona, si terrà un corteo nazionale volto a negare agibilità politica al Congresso Mondiale delle Famiglie patrocinato dal ministro leghista Fontana.
Sono entrambe iniziative cui è importante partecipare. La lotta contro la criminalizzazione, gli sgomberi, gli arresti dei compagni/e va di pari passo con la lotta contro l’oscurantismo becero e bigotto, la repressione politica è anche repressione di corpi e desideri dei soggetti altri.
A mostrare il legame tra queste due mobilitazioni vi sono anche le parole del presidente della Provincia di Trento, il quale ha rivendicato le cariche poliziesche contro chi contestava una conferenza organizzata sul modello del Congresso di Verona e ha motivato la tolleranza-zero contro ogni forma di dissenso agitando lo spauracchio del nemico pubblico anarchico.
I reati inizialmente contestati nell’inchiesta “Renata” includono oltre al 270 bis (associazione eversiva e terroristica) anche il 280 bis (atto di terrorismo con ordigni esplosivi e micidiali). Come abbiamo scritto queste due imputazioni sono oggi state indebolite dalla decisione del Tribunale del Riesame che ravvisa “solo” l’associazione sovversiva, oltre ad altri reati senza finalità di terrorismo. Ma non crediamo comunque che l’accusa abbandonerà facilmente la qualificazione terroristica delle imputazioni.
Fra gli episodi attribuiti alla fantomatica “associazione”, che farebbero parte del “programma eversivo e terroristico”, vi sono alcuni danneggiamenti, sabotaggi e botti che, nel corso di un paio di anni, hanno colpito obiettivi a vario grado legati a banche, sedi della lega, ripetitori, laboratori di ricerca collegati ad interessi bellici. Ma il dato interessante è che la stragrande maggioranza dei reati contestati, riguarda manifestazioni e presidi tenuti sia in provincia che fuori e comunque attività alla luce del sole con nessun collegamento diretto con le precedenti.
E’ importante notare come l’imputazione del reato associativo permette anche di attivare una sorveglianza invasiva dei sospetti. Si ottiene infatti facilmente in questi casi dal GIP il via libera per l’installazione di telecamere e microspie per captare ogni dettaglio e parola delle vite intime e usarlo, spesso con sapiente montaggio, per costruire l’accusa. Cio’ è avvenuto per l’inchiesta Renata con microspie in auto e finanche una telecamera nel citofono di casa. Ma anche a Torino nell’operazione Scintilla la curiosità degli inquirenti si è spinta fino alle camere da letto dell’Asilo Occupato.
Non è la prima volta che in Trentino si tenta la strada della criminalizzazione delle realtà antagoniste, nella fattispecie anarchiche, addossando loro l’etichetta del terrorismo e dell’associazione eversiva o sovversiva. Cinque volte in trent’anni, almeno tre volte negli ultimi 15 anni, l’articolo 270 bis del codice penale è stato utilizzato contro di loro.
I risultati processuali di questa criminalizzazione sono stati, alla fine, piuttosto miseri: sempre assolti in processo per i reati associativi, gli indagati sono stati sottoposti però a mesi di carcerazioni preventive, spesso in modalità aggravate, in isolamento o in modalità AS2 (chiusura della cella, blindo abbassato per non far vedere quello che c’è fuori, restrizioni alla socialità e ai colloqui, e così via). Ed è proprio in reparti di AS2 che si ritrovano gli arrestati di queste inchieste, sparpagliati tra il carcere di Tolmezzo a Udine, quello di Ferrara e il femminile dell’Aquila.
Insomma con “Renata” ci riprovano, con gran dispendio di mezzi, uomini, soldi e con il sostegno di campagne mediatiche avviate dall’uomo forte del momento, il ministro dell’interno, che plaude all’operazione di “smantellamento della cellula terroristica trentina” attribuendosene, fra l’altro, i meriti politici. Aldilà della uscite da sciacallo spaccone cui ci ha ormai abituato il personaggio, è evidente che l’avanzamento in chiave reazionaria-sicuritaria, di cui la figura politica di Salvini è perfetta espressione, contribuisce ad accelerare e coordinare operazioni repressive costruite nel corso di diversi anni di indagine.
Il fatto che la regia dell’indagine sia posta ad un livello piuttosto alto è confermato dal coinvolgimento, oltre che dei ROS, anche della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione. Apparati polizieschi che, proprio grazie alla qualificazione terroristica delle accuse, possono realizzare un coordinamento su scala nazionale parallelo a quello, svolto a livello di procure, dalla Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (è il decreto Alfano del 2015 ad aver aggiunto le competenze antiterrorismo alla procura antimafia).
È evidentemente il frutto di una scelta strategica che l’operazione Renata segua di poco quella di Torino contro l’Asilo, un luogo occupato dagli anarchici da 24 anni. Anche qui accuse di reati associativi (associazione sovversiva – articolo 270 codice penale) e di svariati altri reati, legati peraltro alla lotta contro il cpr (ex cie) di corso Brunelleschi. Anche qui dispendio di mezzi e forze dell’ordine nel militarizzare un intero quartiere di Torino (Aurora, dove si trovava l’Asilo), oltre al fermo di quasi venti persone e l’arresto di sette, messe in condizioni di isolamento.
Non è un caso, infine, che queste due inchieste siano intervenute subito dopo il discorso tenuto da Salvini – con il plauso degli alleati – che indicava la rotta da seguire: dopo gli immigrati tocca ai “criminali anarchici e comunisti” dei centri sociali e agli antagonisti in generale, tutti in galera e buttare via le chiavi.
Così come va ricordato che altre due inchieste per “associazione a delinquere al fine di occupazione di case” all’indirizzo dei compagni/e del Giambellino a Milano e di Prendocasa Cosenza sono arrivate subito dopo l’approvazione del “decreto sicurezza”.
In questo periodo, peraltro, sta entrando nel vivo il processo inerente l’inchiesta denominata “Robin Hood”, per quanto riguarda il Giambellino. Il 2 aprile, infatti, è iniziato il giudizio immediato a carico di otto compagni/e inizialmente arrestati lo scorso 23 dicembre e sottoposti da due mesi agli arresti domiciliari, con l’accusa di associazione a delinquere. Ciò che emerge con inquietante ripetitività è la volontà di interpretare le esperienze di lotta, anche più sociale che politica, come possono essere le occupazioni abitative, con la lente della criminalizzazione associativa.
Non è certo la prima volta che accade, diverse inchieste sono state fatte negli anni scorsi con presupposti molto simili, quello che colpisce attualmente è la frequenza e l’estrema somiglianza di caratteri repressivi con cui tali iniziative inquisitorie vengono messe in atto. Le operazioni contro i comitati del Giambellino e di Cosenza sono state eseguite lo stesso giorno contro due realtà politiche coinvolte in alcune occupazioni abitative, sulla base della medesima accusa di associazione a delinquere.
Il decreto sicurezza, voluto fortemente dalla Lega e accettato supinamente dai suoi alleati pentastellati ha sicuramente dato uno slancio forte alle velleità di procure e magistrati adibiti alla criminalizzazione delle lotta politica ed alla repressione di quelle che potremmo definire “forme di vita” che stridono con la configurazione del cittadino modello.
Se analizziamo il provvedimento, vedremo infatti che questo – sul fronte dell’irregolarizzazione degli emigranti, come la chiamerebbe il prof. Pietro Basso – prevede il prolungamento da tre a sei mesi della detenzione degli immigrati “irregolari” nei CPR, il radicale ridimensionamento del sistema SPRAR e la cancellazione del permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, facendo perdere a migliaia di persone il titolo di una, seppur temporanea, regolarizzazione.
Lo stesso decreto, sul fronte della repressione delle lotte ha introdotto il reato di blocco stradale (con le aggravanti, si può arrivare fino a 12 anni) che intende colpire duramente scioperi e picchetti, ha inasprito di molto la disciplina del reato di occupazione di terreni o edifici (la pena è stata raddoppiata, fino a quattro anni di reclusione e la procedibilità è sempre d’ufficio), ha esteso la disciplina del DASPO e dell’utilizzo del Taser.
Questo doppio movimento contro gli stranieri e contro chi lotta è significativo. Teniamo a mente che l’inchiesta di Torino dà molta enfasi alla solidarietà praticata dagli anarchici nei confronti dei reclusi nel CPR, mentre a Milano e Cosenza si colpiscono occupazioni dove trovavano uno spazio abitativo sia italiani che stranieri. Uno degli obiettivi di queste operazioni sembra allora essere quello di stroncare la possibilità che il conflitto politico meno addomesticato e la condizione di grande precarietà vissuta dagli emigranti irregolarizzati si incontrino su un piano di lotte comuni.
In quest’ottica è significativo come sotto il mirino della Lega stia finendo il Si Cobas, uno dei sindacati di base maggiormente impegnato nell’organizzazione dei lavoratori, in gran parte stranieri, del settore della logistica. Proprio in questi giorni un’interrogazione di due consiglieri leghisti del Comune di Modena chiede interventi repressivi contro il sindacato, colpevole di fare il suo mestiere, ossia di “insinuarsi nelle aziende ritenute solide attraverso il rapporto con lavoratori connazionali impiegati nelle cooperative, intercettando, fra i lavoratori culturalmente più deboli, potenziali iscritti” e di “fare proselitismo per poi cogliere un pretesto sindacale e aprire lo stato di agitazione proclamando scioperi”.
L’offensiva giudiziaria contro i movimenti sociali e contro gli antagonisti è sempre stata presente, ma vi è stata un’accelerazione negli ultimi due decenni, soprattutto a partire dal G8 di Genova in poi, con l’uso sempre più spregiudicato dei dispositivi repressivi. L’associazione sovversiva ed eversiva è uno di questi: seguendo la logica del diritto penale del nemico colpisce direttamente le soggettività politiche più che le loro azioni (il 270 bis colpisce le associazioni che solo “si propongono” atti eversivi, mentre il 270 parla di una generica “idoneità” dell’associazione al fine sovversivo).
Adesso, se possibile, vi è stato un ulteriore avanzamento, con un coordinamento spudorato fra i dispositivi politici, mediatici e giuridici, tutti compartecipi a fare la propria parte nella criminalizzazione del dissenso e dell’antagonismo. Bisogna capire l’importanza della posta in gioco: se i reati associativi vengono applicati a dei gruppi privi di un’organizzazione strutturata come gli anarchici o comitati per il diritto all’abitare, domani sarà più facile colpire anche organizzazioni conflittuali come sindacati di base o associazioni e partiti che hanno una certa radicalità.
È necessario interrogarsi su come resistere all’offensiva. Tutti coloro i quali hanno a cuore la libertà e l’agibilità delle lotte dovrebbero stringersi attorno ai colpiti dalla repressione, tentare di rinsaldare i legami tra le soggettività in lotta, difendere con forza le mobilitazioni, le occupazioni abitative o politiche, i collettivi, i centri sociali e rigettare ogni logica di nemicità addossata agli avversari di turno del potere politico.
E’ solo con una rinnovata determinazione di lotta e coesione tra oppressi-e, che è possibile reagire e ripartire.
Solidarietà agli accusati/e del Trentino, di Torino, Milano e Cosenza!
CONTRO IL PATRIARCATO!
CONTRO LA REPRESSIONE!
NIC, POZA, SASHA, STECCO, RUPERT, AGNESE, GIULIO, LIBERI/E!
LIBERI/E TUTTI E TUTTE!
Liberi/e tutti/e!