Ordinaria TORTURA: La storia di Antonio Argentieri Piuma torturato in carcere
- aprile 25, 2010
- in carcere, testimonianze, ultras
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Oltrepassata la cinta muraria, nei pressi di Porta S. Spirito, la strada si inerpica dolcemente. È un antico acciottolato, ornato da cipressi e faggi. Le finestre dei palazzi intorno sono tinte dai vessilli delle contrade: la Giostra del Saracino, di cui Arezzo mena vanto, si terrà di lì a un mese. In cima al Poggetto del Sole, il palazzo della Questura lo trovi a destra, valicando questa collina che si erge intorno alla stazione centrale.
Antonio Argentieri Piuma, le bellezze e le vestigia medievali di Arezzo, quella lontana sera di maggio di cinque anni fa, non ebbe modo di ammirarle. Perché una brutta storia, la sua storia, di ordinaria tortura, lo vide protagonista, e vittima suo malgrado. Una storia che ha inizio proprio in quelle stanze anguste e buie del palazzo in vetta al Poggetto del Sole.
La partita di Supercoppa
È il 23 maggio del 2004 e Antonio, Totò per gli amici, si muove alla volta di Arezzo. È un tifoso dell’U.S. Catanzaro 1929, Antonio. Un tifoso accanito, un ultrà. Che segue la sua squadra del cuore ovunque e comunque. Anche a costo di sacrifici. Come quello di arrivare in Toscana dalla Calabria per una partita apparentemente inutile. Il campionato di serie C il Catanzaro lo ha già vinto. E quella che si gioca nella città del Petrarca è poco più che un’amichevole. Anche se, ufficialmente, mette in palio un trofeo, la Supercoppa di Lega, tra le due squadre, l’Arezzo e il Catanzaro, che hanno vinto i rispettivi gironi.
Tra le opposte tifoserie i rapporti sono pessimi a causa dell’antico gemellaggio tra i catanzaresi e i fiorentini. Dante definiva gli aretini «i botoli ringhiosi». E la rivalità tra aretini e fiorentini è, come noto, plurisecolare. Nel dopogara scoppiano cruenti tafferugli. Il bilancio finale è da prima pagina: 19 arresti e numerosi feriti. Tra gli arrestati c’è anche Antonio Argentieri Piuma, Totò per gli amici. Tutti vengono condotti al palazzo della Questura.
Il fermo e l’arresto
«Mi tremano i polsi, ho la bocca secca, lo sguardo inebetito. Mi trascinano per il corridoio, mi colpiscono alle braccia, alle gambe, sulla testa. Non sento più nulla ormai, dopo le botte subite dalla polizia al momento dell’arresto:la calibro 9 puntata in bocca e poi sbattuta sul cranio. La disperata difesa finita in un pestaggio barbaro, la terrificante stretta alla gola che provocò la perdita dei sensi». Argentieri, a quasi 6 anni di distanza, rompe il silenzio e ripercorre per il manifesto quei drammatici momenti vissuti insieme ai suoi amici. Una decisione lenta e sofferta, solo per dare sostegno alla famiglia di Stefano Cucchi e per amore di verità.
Ma il peggio, dopo le ore passate in Questura, doveva ancora arrivare. Perché le tante ore di fermo erano solo l’antipasto di una giornata nera, un incubo maledettamente vero. «Tutto incomincia intorno alle due del mattino. Il lunghissimo fermo di polizia si tramuta in arresto – continua Argentieri – e così, tre per volta, veniamo tradotti in prigione regolarmente ammanettati». Il carcere di Arezzo di via Garibaldi 259 sorge in un palazzo antico. È una prigione dalla cattiva fama e dalla brutta nomea. Lo scorso Ferragosto i detenuti hanno manifestato all’interno per protestare contro le negazioni dei loro diritti, sventolando fuori dalle sbarre un lenzuolo che bruciava, sbattendo con forza le pentole in un interminabile e rumorosissimo cacerolazo. Il giorno prima, il 14 agosto, la senatrice Donatella Poletti del Partito radicale si era recata in visita ispettiva, denunciando sovraffollamento, carenza di organico, una struttura antica e fatiscente, «una situazione in cui anche una partita di pallone tra detenuti diventa un miraggio».
Cinque anni prima, la casa circondariale di Arezzo fu teatro di violenze, pestaggi ed umiliazioni. «Mi trascinano dentro una cella, il cancello rimane aperto. Davanti a me una scrivania, un agente della polizia penitenziaria. “Svuota le tasche, stronzo” mi grida “fai vedere cosa nascondi”. Ecco che ricevo il primo pugno sul viso, a freddo, e il secondo di dietro alla nuca. La gamba del secondino che mi sta alle spalle si infila tra le mie e perdo l’equilibrio mentre lui mi colpisce sulla testa con la suola degli anfibi».
È un racconto duro e crudo quello di Argentieri, che descrive nei minimi particolari quegli attimi in cui una rabbia mista ad incredulità lo pervade. «Ora dammi il portafogli, terrone di merda, poggia tutto qui e spogliati che ti diamo una bella ripassata. Fai in fretta, calabrese di merda, pantaloni scarpe, mutande, tutto». Argentieri non risponde ad alcuna provocazione perché è consapevole che i suoi aguzzini non aspettano altro. Esegue le indicazioni, si spoglia e lascia cadere gli abiti sul freddo pavimento della cella di sicurezza. Nel mentre, un agente della polizia stradale si gusta la scena all’ingresso della cella con un ghigno di soddisfazione: «Prima di essere investito da una lunga serie di manganellate che faranno di me un corpo di piaghe e dolori».
«L’ubriacone»
«Cerco di proteggere il capo e le tempie con le braccia e lascio più scoperti i fianchi. Resistere è dura. Non so dove trovare la forza per non urlare, per non reagire: un’umiliazione terrificante. Torturato così da due sconosciuti in una prigione dello Stato italiano. Chi è stato a Genova, l’anno del G8, sa di cosa parlo». Nel volgere di qualche minuto, Argentieri riceve una cinquantina di manganellate, intervallate da ceffoni, pugni, calci, spintoni, pugni, di tutto. «Ho le costole rotte, la testa che mi scoppia, le braccia livide, le gambe piene di ferite. I vestiti sono laceri, la faccia arrossata e gonfia. Emetto qualche gemito di dolore ma l’unica cosa che temo veramente è di essere sodomizzato, sì sodomizzato. Sono due mostri assetati di violenza. Sento la puzza dell’alcool uscire dalla bocca di uno dei due, quello che stava dietro la scrivania».
Nei giorni seguenti, infatti, Argentieri conobbe le gesta infami di quel secondino, noto come “l’ubriacone”, dalla voce di alcuni detenuti. «Ma l’altro, quello coi baffetti, non era da meno, ma per fortuna si fermano lì e non vanno oltre. Entrambi li rividi poi il giorno della scarcerazione, incrociando i loro sguardi». Dopo il pestaggio Argentieri si riveste e viene condotto in cella, la sua prima notte da detenuto. «Il corridoio è buio, vedo poco ma continuo a camminare. Salgo una rampa di scale, la seconda, la terza, fino ad arrivare all’ultimo piano. Nel tragitto ricevo calci e spintoni. “Ecco la tua cameretta” mi urlano “entra, stronzo, ora sei a casa” spingendomi in cella con un calcione sulla schiena. Sono all’incirca le quattro del mattino».
All’indomani, dinanzi al Gip, Argentieri non raccontò nulla di quella barbara notte appena vissuta, per paura di ritorsioni all’interno dell’istituto penitenziario. «Ma quando riabbracciai la libertà denunciai tutto alla magistratura, allegando una corposa documentazione costituita da certificazioni mediche e materiale fotografico relativo alle ferite riportate sul corpo». Di quella denuncia non si saprà più nulla. Andrà avanti, invece, il procedimento penale a carico di Argentieri e dei suoi amici che sinora ha prodotto in cifre: 4 giorni di carcere, 14 giorni ai domiciliari, un mese di obbligo di dimora, una condanna in primo grado ad un anno e dieci mesi di reclusione (per chi come Argentieri ha seguito il rito ordinario) con la pena condonata perché coperta da indulto. Tutti gli imputati hanno annunciato ricorso in appello.
Questa che avete letto è la storia di Totò Argentieri Piuma, che oggi ha trentacinque anni, è giornalista, dirige la rivista telematica www.terramara.it, vive la sua vita normalmente ma non ha dimenticato una virgola di quei drammatici momenti: «A me andò bene ma a Stefano Cucchi, ad Aldo Bianzino, a Federico Aldrovandi no. In un Paese civile e democratico che rifiuta a parole qualsiasi forma di violenza e discriminazione questo non è accettabile. La violenza e la tortura sono bandite dalla Costituzione a prescindere dal capo d’imputazione e dal tipo di condanna inflitta. Per questo è sacrosanta la ricerca di tutta la verità. La magistratura ha il dovere di fare giustizia». , tifoso del Catanzaro finito in carcere dopo una trasferta con scontri ad Arezzo, nel 2004. «Mi misero una pistola in bocca, mi pestarono e insultarono ripetutamente. Ho denunciato tutto alla magistratura con tanto di foto e certificati medici, ma invano. Se parlo ora è solo per aiutare a scoprire la verità su casi come quelli di Stefano Cucchi»