Vuoi per “provocazione amichevole”, vuoi per sapere cosa ne penso (in riferimento al polverone sollevato l’anno scorso dal mio articolo sulla relazione tra alpinismo e colonialismo), qualche compagno ha voluto scomodarsi per aggiornarmi su alcune recenti “imprese” alpinistiche (vedi sul K2).
Cos’altro posso dire che non abbia già detto? Forse soltanto: “A volte ritornano” (crisi d’astinenza o coazione a ripetere?).
Peccato comunque per i leopardi delle nevi che nel corso del 2020 – come sostenevano alcuni naturalisti – si stavano riappropriando dei legittimi spazi e territori. Grazie alla consistente rarefazione di turisti-alpinisti (effetto collaterale – benigno – del Covid 19).
Peccato, ripeto. Resta sempre il problema di come si possa fare serenamente del turismo – se pure d’alta quota – in un paese che opprime e reprime donne, diseredati e minoranze.
In precedenza – anche qui – mi ero occupato dei beluci. Non sono gli unici naturalmente.
Una premessa di carattere generale.
Inoltrandosi nel complicato “groviglio” orientale può capitare, per quanto in buonafede, di trascurare alcune “minoranze” (termine riduttivo, in realtà di dovrebbe parlare di “popoli minorizzati”, in genere forzatamente).
Popolazioni che talvolta emergono dall’anonimato in cui le vorrebbe segregate qualche potenza regionale (magari cambiando denominazione: vedi l’epiteto di “turchi di montagna” usato per i curdi del Bakur) soltanto per qualche rivolta disperata a cui segue – fatalmente – un’impietosa repressione. Oppure quando qualche potenza concorrenziale cerca di utilizzarli per scopi non certo disinteressati.
O ancora, sempre pensando ai curdi (ma stavolta del Bashur), ripercorrendo quanto avvenne 30 anni fa con la prima guerra del Golfo, quando le rivolte curda (a nord) e sciita (a sud) stavano per abbattere autonomamente – sia pure come effetto collaterale dell’attacco statunitense – il regime (e non solo l’ormai impresentabile Saddam, alleato storico dell’Occidente). Temendo che la situazione sfuggisse loro di mano, gli USA preferirono liberare e riarmare – con elicotteri e carri armati in parte di produzione italica – i soldati iracheni già sconfitti e catturati. Consentendo loro di scatenare l’ennesima, sanguinosa repressione. Fatte le debite proporzioni, ricordava quanto avvenne in Francia all’epoca della Commune. Quando i prussiani – temendo il “contagio” della grandiosa sollevazione popolare – ugualmente liberarono e riarmarono i soldati francesi. Per consentirgli di “ristabilire l’ordine a Parigi” massacrando i comunardi.
Messi da parte contrasti e inimicizie, alla fine i potenti trovano sempre un accordo quando si tratta di conservare il controllo, la sottomissione di classi subalterne, minoranze indocili e popoli ribelli.
Ma non tutti i popoli, purtroppo, approdano in maniera significativa alle pagine dei giornali o del web.
E’ questo – mi pare – il caso degli hazara insediati nella regione pachistana del Belucistan (la maggior parte, circa 500mila, a Quetta).
Di religione sciita, periodicamente sottoposti a uccisioni mirate, rapimenti e massacri.
E non da ora. Risalendo indietro nel tempo, vediamo che tra il 2001 e il 2011 almeno 600 hazara avevano perso la vita in attacchi settari. Solo nei primi tre mesi del 2012 altri 30.
All’epoca la maggior parte degli attentati vennero rivendicati daI fondamentalisti sunniti di Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami, braccio armato del Sipah Sahaba Pakistan (Ssp), entrambi – presumibilmente – manipolati dai servizi segreti pachistani.
Dopo essere state dichiarate illegali, le due organizzazione si ricostituirono come Millat Islamia Pakistan e Ahl-e-Sunnat Wal Jamat.
Da parte loro, gli hazara rispondevano solo politicamente, con scioperi e proteste. E, particolare non irrilevante, senza particolari velleità separatiste (anche per non fornire alibi alla repressione governativa).
La manifestazione del 21 settembre 2011 – indetta per protestare contro una strage di pellegrini sciiti che viaggiavano in autobus – era entrata nella storia per la grande partecipazione popolare.
Ma solo dopo pochi giorni, il 4 ottobre 2011, la violenza settaria colpiva un altro autobus e diversi hazara – operai che andavano al lavoro – perdevano la vita.
Con le stesse modalità il 29 marzo 2012 venivano ammazzati otto hazara, mentre il 6 aprile altri sei venivano trucidati in una bottega artigianale. Nei primi mesi del 2013 si parlava addirittura di quasi duecento hazara morti in attentati settari.
In precedenza, nel 2010, era stato assassinato Hussein Ali Youssafi, presidente del Partito democratico hazara (fondato nel 2003). A lui subentrava Abdul Khaliq Hazara che – quando si recò a Islamabad per denunciare la situazione in cui versava il suo popolo – si sentì chiedere di sospendere le manifestazioni di protesta.
Per la cronaca, circa nello stesso periodo i fondamentalisti sunniti tornavano a colpire anche gli hazara dell’Afghanistan, accusandoli – ovviamente – di essere “infedeli”. Venne poi accertato che alcuni degli attentati più devastanti erano opera non dei talebani afgani, ma di miliziani provenienti dal Pakistan legati a Lashkar-e-Jhangvi Al-Alami.
Intanto continuava lo stillicidio di omicidi settari e vere e proprie stragi nelle strade di Quetta (e alcuni osservatori vi intravedono ingerenze, infiltrazioni e finanziamenti sauditi).
A Quetta (2,3 milioni di abitanti) vivono sia pasthun che beluci e aimak, ma è fuori discussione che – almeno in percentuale – il maggior numero di vittime sono hazara.
Non solo. Per anni questa “comunità sotto controllo” è vissuta praticamente confinata, segregata in enclave circondate da posti di blocco (tipo Irlanda del Nord). In teoria potrebbero circolare liberamente per la città, ma a proprio rischio e pericolo.
Quanto alla comunità internazionale – Usa e Unione europea in particolare – non sembra aver mai mostrato particolare interesse per le vicende di tale minoranza che in quanto sciiti venivano – e vengono- considerati potenziali alleati di Teheran. Così come, coincidenza o analogia, all’epoca nessuno mostrò particolare interesse per la “primavera” sciita nel Barhein (repressa con l’intervento di Arabia Saudita e Qatar e il tacito assenso dell’Occidente).
E invece l’Iran “non ci aiuta , cerca piuttosto di infiltrarci e controllarci tramite la religione”.
O almeno così sosteneva, ritengo a ragion veduta, in una conferenza stampa Khaliq Hazara.
Comunque, proseguiva “grazie ai finanziamenti di Teheran, gruppi filo-iraniani come Tehreik-e-Nifaz e Fiqa-e-Jafria avevano aperto a Quetta dozzine di scuole coraniche, ma noi siamo laici e lottiamo per la giustizia sociale, la democrazia, il rispetto della vita umana e la tolleranza”.
Ricordando che “i due milioni di hazara (in gran parte rifugiati dall’Afghanistan nda) che vivono in Iran sono trattati come cittadini di serie C”. In qualche modo ostaggi dei conflitti di influenza tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita.
Ai nostri giorni le violenze ai danni degli sciiti hazara, delle loro scuole e luoghi di culto proseguono inesorabili.
Per esempio, nel settembre dell’anno scorso, un attentato suicida (rivendicato da Wahhabi Daesh e da Lashkar-e- Jhangvi) ha causato più di venti morti e oltre cinquanta feriti in un mercato.
Dopo gli ultimi attacchi settari, le famiglie delle vittime non solo hanno manifestato nelle strade contro il governo (definito “complice”), ma addirittura si rifiutavano di seppellire i morti come forma di protesta per la mancata protezione.
E non sono certo bastate a placare gli animi le pubbliche dichiarazioni – di circostanza – venute da vari esponenti dell’apparato politico-militare al potere. Comprese quelle del Primo Ministro Imran Khan che in varie occasioni ha espresso solidarietà alle vittime.
Amnesty International ha condannato con forza le molteplici violazioni dei diritti umani subite dagli hazara. In particolare A.I. aveva chiesto che “il Capo di Stato maggiore dell’esercito venga a Quetta per vedere di persona la miseria e le difficoltà del popolo hazara”.
Senza – almeno per ora – ricevere risposta.
Tutto questo, ripeto, nel Paese che un sempre maggior numero di scanzonati turisti benestanti d’alta quota (il cui livello di consapevolezza sociale e ambientale lascia quantomeno a desiderare) ha individuato come “parco giochi spettacolare”. Invece di boicottarlo come ai vecchi tempi si faceva con il Sudafrica razzista.
Gianni Sartori