Palestina: Sorvegliati e puniti, tecnologia al servizio dell’occupazione
Panopticon palestinese: riconoscimento facciale, app, telecamere, spyware. Hebron e Gerusalemme laboratori del controllo israeliano. In archivio digitale i dati disponibili: lavoro, fedina penale, «grado» di pericolosità
di Chiara Cruciati
Pochi anni e gli occhi si sono moltiplicati. Osservano Gerusalemme da ogni angolazione, non perdono mai di vista il loro obiettivo. Puoi letteralmente seguire una persona passo dopo passo, nei vicoli mattonati della città vecchia, dal momento in cui esce di casa a quello in cui ci torna.
Qualche tempo fa non era ancora così diffusa, pervasiva: la sorveglianza era affidata agli occhi delle centinaia di soldati e poliziotti israeliani che ogni giorno presidiano le stradine dentro le mura gerusalemite. Non che non ci siano più, ci sono ancora e sono tanti. Nella loro opera di osservazione totale ora però sono coadiuvati da una rete di telecamere senza buchi.
Sono comparse nel corso degli ultimi due decenni: le prime ci venivano indicate a dito dai palestinesi, con timore, «ne hanno messa un’altra, vedi, lì prima non c’era». Oggi quella rete copre l’intera città vecchia di Gerusalemme e la zona est occupata, quella dove vive la comunità palestinese.
GERUSALEMME non è sola. A Hebron, nella Cisgiordania occupata, succede lo stesso: un sistema automatizzato di sorveglianza totale osserva ora dopo ora, giorno dopo giorno, la vita di centinaia di migliaia di palestinesi. Tanto sofisticata che le autorità israeliane hanno ribattezzato il progetto «Hebron Smart City».
Niente di originale, anche ad altre latitudini si vantano città “intelligenti”. Cambia il contesto e cambia, in parte, l’obiettivo: qui ci si trova in un territorio illegalmente occupato secondo la definizione del diritto internazionale e lo scopo è una sicurezza razzializzata. Ti controllo perché sei pericoloso in quanto portatore di una precisa identità, quella palestinese.
Lo Stato che si propone come avanguardia tecnologica globale è da tempo modello per il controllo sociale pervasivo e totalizzante, che conosce e vigila su ogni aspetto della vita quotidiana delle comunità palestinesi. Lavoro, studio, corrispondenza, spostamenti: la conoscenza è potere.
Lo ha sempre fatto, ci sono unità dell’esercito israeliano da decenni deputate solo a questo, a spiare le vite degli altri, dell’«altro» per eccellenza: torrette militari, checkpoint, perquisizioni personali e raid nelle abitazioni, sistema dei permessi di ingresso in territorio israeliano per lavoro o salute, scrutinio della posta e della corrispondenza elettronica (mail, sms, app di messaggistica).
Da anni questa attività primitiva gode di un sistema integrato di app, telecamere, riconoscimento facciale, intelligenza artificiale, raccolta dati, spyware che – scrive Amnesty International nel suo ultimo rapporto, Automated Apartheid, frutto di un anno e mezzo di ricerche sul campo e di interviste – «consolida il controllo del governo israeliano sui palestinesi e aiuta a mantenere il suo sistema di apartheid». «Oltre alla costante minaccia di uso eccessivo della forza fisica e dell’arresto arbitrario – si legge nel commento al rapporto della segretaria generale di Amnesty, Agnès Callamard – i palestinesi ora devono affrontare anche il rischio di essere tracciati da un algoritmo o di venire tenuti fuori dai propri quartieri sulla base di informazioni raccolte in database di sorveglianza discriminatori».
UN’ALTRA FORMA di quella che viene da tempo definita dai palestinesi ongoing Nakba, la catastrofe e lo spossessamento che continuano, operazione di allontanamento dalle proprie terre e di espulsione forzata ma spesso silenziosa: niente sgomberi violenti o armi puntate addosso, ma «la creazione di un ambiente sempre più ostile e insopportabile che non lascia altra scelta che quella di andarsene», ci dice Lubna, storica attivista dei diritti dei rifugiati palestinesi.
Andarsene o sopravvivere in spazi limitati, più facilmente controllabili, dove essere resi politicamente innocui ed economicamente sfruttabili come manodopera a basso costo o semplici consumatori. Lo si può fare confiscando terre, annichilendo l’economia di produzione, demolendo case. Oppure utilizzando la miniera d’oro del Ventunesimo secolo: i dati.
A Hebron a operare è il sistema di riconoscimento facciale Red Wolf, che attinge ai dati biometrici e personali raccolti dal sistema Wolf Pack e monitora i vari aspetti della vita quotidiana di un palestinese: volto, residenza, status lavorativo, studi, fedina penale politica sua e dei suoi familiari, spostamenti, interrogatori subiti, grado di pericolosità.
Tutto immagazzinato e a disposizione dei soldati con un click (sta tutto nella app Blue Wolf), senza nemmeno più la necessità di chiedere la carta d’identità, in uno qualsiasi delle centinaia di checkpoint e blocchi stradali che tappezzano la città vecchia di Hebron, già di per sé laboratorio di segregazione con zone off-limits per i palestinesi e accessibili solo ai coloni israeliani. A raccogliere le immagini sono telecamere a riconoscimento facciale, piazzate ovunque: lungo le strade, sopra i negozi, pure nei cortili delle abitazioni private.
GERUSALEMME, invece, è sorvegliata da due decenni da Mabat 2000: migliaia di telecamere mappano e coprono la città vecchia, una o due ogni cinque metri e una densità che cresce nelle zone considerate «sensibili», dalla Porta di Damasco tradizionale ritrovo sociale e politico delle famiglie palestinesi agli ingressi caldi della Spianata delle Moschee. Riconoscono i volti e scansionano le targhe delle automobili.
Per Amnesty, è un uso della tecnologia che «è incompatibile con i diritti umani» perché limita o elimina – su un livello non meramente individuale, ma di massa – libertà di movimento, libertà di espressione, diritto alla protesta, diritto alla privacy. E perché si applica a una sola categoria di persone che vivono sul territorio, i palestinesi sotto occupazione: la normativa nazionale sulla privacy impedisce alle autorità israeliane di fare altrettanto ai propri cittadini.
UNA TECNOLOGIA (testata sui palestinesi e proficuamente venduta all’estero, secondo il Guardian in almeno 43 paesi) che genera ansia e senso di oppressione, riproduce e moltiplica la consapevolezza della diseguaglianza, spinge all’autocensura e frena le manifestazioni di protesta.
È l’identica pratica ribattezzata «Panopticon» dal filosofo inglese Jeremy Bentham nel XVIII secolo: un meccanismo di sorveglianza totalizzante volto al controllo sociale, individuale e collettivo, all’interno del quale un solo soggetto è in grado di monitorare un’intera popolazione prigioniera, senza che questa possa dire con certezza quando è osservata, costringendola a tenere sempre il comportamento desiderato. E non riguarda solo la Palestina.
da il manifesto
Osservatorio Repressione è un sito indipendente totalmente autofinanziato. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000 e darci una mano a diffondere il nostro lavoro ad un pubblico più vasto e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram