Menu

Pavia: detenuto di 38 anni si uccide asfissiandosi con il gas, salgono a 7 i suicidi da inizio anno

Jon R. aveva 38 anni, era di origini romene. Ha aspettato che i compagni di cella uscissero per l’ora di socializzazione. Una volta rimasto solo con le sue angosce ha messo in pratica il suo proposito disperato, che forse covava da tempo. Ha inalato il gas della bomboletta che viene data ai detenuti per cucinare e si è infilato un sacchetto di plastica in testa, per aumentarne gli effetti. Il giovane detenuto, un romeno di 38 anni, è morto in pochi minuti.

I compagni di cella, al ritorno, lo hanno trovato steso per terra, vicino alla branda. Ormai senza vita. I medici del 118, subito allertati, hanno fatto il possibile per salvarlo, ma per il ragazzo non c’è stato niente da fare. Inutile il trasporto in ospedale.
Era arrivato nel carcere di “Torre del Gallo” un mese fa, proveniente da un altro istituto penitenziario. Era recluso nel reparto “protetti”, riservato a chi deve scontare pene per reati ritenuti “infamanti” dagli altri carcerati. Infatti l’uomo era in carcere per violenza sessuale. Non si conoscono i motivi del gesto, ma pare che da giorni fosse in uno stato di prostrazione dovuto proprio alle accuse per cui era detenuto, ma i compagni e gli agenti di polizia penitenziaria non immaginavano che sarebbe arrivato a un gesto così estremo.
Sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta. I vertici del carcere hanno avvisato il magistrato di turno in Procura, che si è recato sul posto per valutare il caso. “Non siamo ancora in grado di dire niente, gli accertamenti sono in corso”, si limita a dire il direttore del carcere, Jolanda Vitale. Mentre il provveditore regionale agli istituti penitenziari, Luigi Pagano, spiega: “Il detenuto è rimasto solo per un breve momento, mentre gli altri compagni stavano tornando dall’ora di socializzazione. Il fatto è che basta inalare il gas per pochi minuti perché questo abbia effetti letali. La crisi respiratoria che ne deriva diventa irreversibile”.
Il provveditore alle carceri della Lombardia, Luigi Pagano, in attesa che l’inchiesta della procura faccia luce sull’ennesimo caso di suicidio in cella, interviene sulla disponibilità delle bombolette da parte dei detenuti: “Sarà necessario in futuro fissare altre regole, bisogna ripensare all’utilizzo di queste apparecchiature. In realtà il sistema è già regolamentato dalla legge, ma nell’uso concreto delle bombolette molte cose sfuggono al controllo. I detenuti possono usarle per cucinare, e non sempre è possibile prevedere ogni loro gesto. Comunque seguirò personalmente la vicenda”. L’inchiesta aperta dalla procura è un atto dovuto. Al momento non si ipotizzano ipotesi diverse da quelle del suicidio.
 
Nel carcere di Pavia sono avvenute altre 5 morti, negli ultimi 9 anni.
 
Il 5 settembre 2009 Sami Ben Gargi, tunisino di 41 anni, si lascia morire, privandosi volontariamente di cibo e di acqua, perché non accetta la condanna che gli era stata inflitta. E che vive come una vergogna.
L’1 agosto 2007 il 27enne Tomas Libiati viene trovato morto in cella. La visita del medico legale stabilisce che il decesso è avvenuto per “cause naturali”, escludendo l’ipotesi del suicidio, ma la giovane età del detenuto lascia dei dubbi sulla dinamica dell’accaduto.
Il 3 gennaio 2006 Ennio Bertoglio, 57 anni, viene ucciso dal compagno di cella, perché sospettato di pedofilia. “L’ho colpito con la caffettiera perché non sopportavo di dividere la cella con un uomo responsabile di abusi sui minori. Tra detenuti esiste un codice d’onore che va rispettato”, ha dichiarato l’omicida ai magistrati incaricati delle indagini.
Il 19 luglio 2002, G.S., 36 anni, originario di Como, muore inalando il gas. Il corpo senza vita viene trovato verso le 20. L’ipotesi nettamente prevalente è quella del suicidio, anche se non si può escludere che l’uomo abbia voluto inalare il gas solo per stordirsi, in un momento particolarmente negativo, e sia stato stroncato dall’eccessiva quantità respirata.
Il 27 giugno 2002 Miguel Bosco, detenuto per il furto di uno scooter, si chiude nel bagno della cella e si toglie la vita inalando il gas sprigionato da una bomboletta. Aveva 30 anni. Per il caso del giovane rom il ministero della Giustizia è stato chiamato in causa dalla famiglia e, sette anni più tardi, è stato condannato a risarcirla per mancata sorveglianza: 140mila euro, destinati alla madre per la perdita di un figlio.

La “questione” dei fornelli da camping in uso ai detenuti
In carcere i fornelli da camping sono consentiti per legge. Il Regolamento Penitenziario (D.P.R. n° 230/2000), all’articolo 13 comma 4 recita “È consentito ai detenuti ed internati, nelle proprie camere, l’uso di fornelli personali per riscaldare liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande e cibi di facile e rapido approntamento”.
Ma il gas delle bombolette è anche utilizzato dai detenuti per togliersi la vita asfissiandosi, o più spesso come sostanza stupefacente: viene inalato, alla ricerca dello “sballo” e a volte questa pericolosa pratica causa delle morti “accidentali”.
Ed ogni volta che un detenuto muore, volontariamente o meno, a causa del gas inalato, si rinnova la polemica sull’utilizzo dei fornelli da campeggio e sulla necessità di sostituirli con delle “piastre” ad alimentazione elettrica. Tutti gli operatori sono d’accordo su questa soluzione, ma poi non se ne fa nulla.
 
Il motivo è semplice: ha un costo… e le casse del Dap sono desolatamente vuote.
 
I detenuti hanno comunque bisogno di uno strumento per cucinarsi i pasti in cella, considerando che il vitto fornito dall’amministrazione non li sfama: per il 2011 (vedi tabella allegata) le risorse stanziate consentono una spesa giornaliera pro-capite di 3,35 € (per colazione, pranzo e cena… la stessa cifra che noi spendiamo per 3 caffè al bar). Per garantire il minimo indispensabile (4,25 € al giorno) servirebbero 20 milioni di € in più, che non sono stati assegnati forse anche per la prevista scarcerazione di 8-9mila detenuti con la legge “svuota-carceri”. Invece ne sono usciti meno di mille, e ora i soldi per sfamare chi è rimasto dentro non bastano.
La seconda ragione (sempre economica) per cui ai detenuti vengono lasciati i fornelli è che per prepararsi i pasti acquistano i prodotti alimentari al “sopravvitto”, una sorta di spaccio interno alle carceri, gestito dalle stesse ditte aggiudicatarie dell’appalto (con gara per offerte al ribasso) sulla fornitura del vitto “ministeriale”. Anzi la gestione del “sopravvitto” è molto più redditizia rispetto a quella del “vitto”: ogni detenuto può acquistare prodotti fino a un limite di spesa di 130 € settimanali (a fronte dei circa 25 euro spesi dal ministero per mantenerlo).
Naturalmente pochi detenuti possono permettersi spese così elevate, ma anche calcolando cifre ridotte di 2/3 a livello nazionale si arriva a una “torta” di 200 milioni di euro all’anno. Un business non trascurabile, basato su prezzi assimilabili a quelli di un supermercato, dove però non ci sono mai vendite sottocosto o promozioni e dove il “personale” costa pochissimo (un detenuto “spesino” guadagna 300 – 400 euro al mese). Insomma lasciare che i detenuti si cucinino in cella è un affare 
Infine, per sostituire i fornelli a gas con quelli elettrici è necessario che in ogni cella ci sia una presa elettrica, che oggi non c’è. E come verrebbe misurato il consumo di energia? Con un contatore per ogni cella? E se in una cella ci sono 10 detenuti, come verrebbe suddivisa la spesa? (Attualmente ognuno ha il suo fornello e si compra le bombolette di ricarica). Comunque sarebbe necessario fare dei lavori di adeguamento e oggi si pensa piuttosto a costruire nuove celle per far fronte al sovraffollamento, piuttosto che a rendere più sicure e vivibili quelle esistenti.
 
Insomma, i fornelletti sono pericolosi, ma rimarranno.
fonte: Ristretti Orizzonti