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Per la Procura di Roma Stefano Cucchi non è stato ucciso.

Non c’è più l’omicidio colposo tra i reati formulati dalla procura di Roma in relazione alla morte di Stefano Cucchi, il ragazzo morto il 22 ottobre scorso, una settimana dopo essere stato arrestato dai carabinieri per spaccio di droga. A carico dei medici dell’ospedale Sandro Pertini, infatti, i pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loi, che hanno depositato gli atti, hanno contestato, a seconda delle posizioni, il favoreggiamento, l’abbandono di incapace, l’abuso d’ufficio, e il falso ideologico. Lesioni e abuso di autorità sono le ipotesi di reato attribuite agli agenti della polizia penitenziaria. Complessivamente, 13 persone rischiano di finire a processo.

Bastava un cucchiaino di zucchero e Stefano Cucchi si sarebbe salvato. Lo scrivono i pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy nell’avviso di fine inchiesta notificato a tredici persone tra agenti della polizia penitenziario, personale medico e paramedico in servizio all’ospedale Sandro Pertini e a un dirigente del Prap (Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria). Tra le varie mancate cure contestate al primario, a quattro medici e tre infermieri (si salva dall’accusa di abbandono di incapace aggravato dalla morte solo la dottoressa Rosita Caponetti), c’è anche quella di aver volontariamente omesso di “adottare qualunque presidio terapeutico al riscontro di valori di glicemia ematica pari a 40 mg/dl, rilevato il 19 ottobre, pur essendo tale valore al di sotto della soglia ritenuta dalla letteratura scientifica come pericolosa per la vita (per un uomo pari a 45mg/dl), neppure intervenendo con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchiere d’acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso». Tra le altre omissioni volontarie, ci sono la mancata effettuazione di un elettrocardiogramma, la mancata palpazione del polso e l’assenza di controllo del corretto posizionamento o dell’occlusione del catetere determinando così l’accumulo di una rilevante quantità di urina nella vescica (1400 cc) con risalita del fondo vescicale e compressione delle strutture addominali e toraciche. A Cucchi, poi, non è stata comunicata l’assoluta necessità di effettuare esami diagnostici essenziali alla tutela della sua vita. Chi era in servizio al Pertini si era limitato a prendere atto del suo rifiuto, con nota in cartella clinica, motivato dalla volontà di parlare con il proprio avvocato. Tra le altre omissioni, il mancato trasferimento del paziente con urgenza in un reparto più idoneo quando le condizioni di salute erano ormai diventate assai critiche.

La dinamica: il pestaggio, l’omissione di soccorso, il falso certificato. Stefano fu picchiato dagli agenti della polizia penitenziaria e, di fatto, non curato dai medici dell’ospedale Sandro Pertini, i quali, pur avendo ben presenti le patologie di cui soffriva il ragazzo nel corso della degenza, “volontariamente omettevano di intervenire”. È dunque questo o scenario che emerge dall’avviso di fine indagine, firmato dai due pm e dal procuratore Giovanni Ferrara, e notificato a tredici persone.
Nicola Menichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici sono gli agenti di polizia penitenziaria cui è contestato il concorso nelle lesioni volontarie e nell’abuso di autorità. Nove rappresentano il personale sanitario in servizio all’ospedale Sandro Pertini dove era stato ricoverato Cucchi: si tratta del primario Aldo Fierro, dei medici Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Luigi Preite De Marchis, Stefania Corbi e di Rosita Caponetti, e degli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. La lista degli indagati è completata da Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio dei detenuti e del trattamento del Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria (Prap). Fatta eccezione per gli agenti della penitenziaria, tutti gli altri, a vario titolo, sono accusati di falso, abuso d’ufficio, abbandono di incapace (punito fino a otto anni, tre in più rispetto al massimo previsto per l’ipotesi originaria di omicidio colposo), rifiuto di atti d’ufficio, favoreggiamento e omissione di referto. Fu il medico Flaminia Bruno, in servizio al Pertini il 22 ottobre scorso, a scrivere il certificato di morte di Stefano Cucchi, “attestando falsamente che si trattava di morte naturale”. Il pm Vincenzo Barba, magistrato di turno quel giorno, ricevette la chiamata di un agente di polizia penitenziaria che gli segnalava quel decesso per cause naturali, circostanza che di solito non comporta alcun accertamento da parte dell’autorita’ giudiziaria. La magistratura, pero’, decise di vederci chiaro quando il primario del Pertini, Aldo Fierro, suggeri’ un approfondimento, attraverso l’esame dell’autopsia, per l’individuazione della causa della morte. La denuncia dei familiari di Cucchi, che erano ancora all’oscuro di tutto, giunse a sette giorni dalla morte. Nel falso documento redatto dalla dottoressa Bruno fu scritto che a causare il decesso di Cucchi fu «una sospetta embolia polmonare in paziente affetto da frattura vertebra L3 piu’ trauma facciale. Grave dimagrimento. Iperazotemia». Secondo la procura, l’indagata era a conoscenza delle patologie di cui Cucchi era affetto, perche’ ricoverato nel reparto nei cinque giorni precedenti, ricollegabili a un traumatismo fratturativo di origine violenta che imponeva la messa a disposizione della salma all’autorita’ giudiziaria.

Il testimone. I nove in servizio al Pertini, tra medici e paramedici, assieme al funzionario del Prap sono accusati dalla procura di Roma di concorso in favoreggiamento per aver aiutato i tre agenti della polizia penitenziaria, autori del pestaggio di Stefano Cucchi,«a eludere le investigazioni dell’autorita’ giudiziaria», di fatto omettendo di trasferire o di richiedere il trasferimento in reparto idoneo in relazione alle condizioni critiche del paziente. Ai nove sanitari la procura ha contestato anche il concorso mell’omissione di referto (non hanno avvertito il magistrato del pestaggio subito da Cucchi). Al primario e alla dottoressa Corbi, infine, e’ attribuito anche il concorso nel rifiuto di atti d’ufficio per non aver disposto con assoluta urgenza il trasferimento del paziente presso una struttura piu’ idonea del Pertini. Nel corso delle indagini, svolte senza che sia stata sollecitata la collaborazione della polizia giudiziaria, i pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno acquisito oltre 80 testimonianze. Quella del detenuto straniero, cui Cucchi
confido’ di essere stato picchiato dagli agenti penitenziari, e’ ritenuta, in particolar modo, “obiettivamente credibile”: il supertestimone rivelo’ ai pm che Cucchi gli fece vedere il sangue che aveva sulle gambe (dove era stato preso a calci) e che gli aveva sporcato i pantaloni. Pantaloni che, al momento di quell’audizione, ancora non erano stati sequestrati dagli inquirenti e che, sottoposti in seguito ad analisi di laboratorio, hanno presentato evidenti tracce di sostanza ematica. “Molto convincente e coerente” e’ stata poi definita la consulenza medico legale del professor Paolo Arbarello le cui conclusioni sono state sostanzialmente recepite dai magistrati. Cucchi, tra le varie lesioni, presentava anche un taglio alla fronte (aveva battuto la testa dopo essere stato picchiato dagli agenti) e il sangue, per gravita’, era sceso intorno agli occhi.
«Senza pestaggio Stefano non sarebbe morto: nessuno può negarlo. Sarebbe come sostenere che si sarebbe prodotto per caso quelle lesioni», ripete Ilaria Cucchi quando sente parlare di derubricazione della posizione dei secondini indagati. La sorella di Stefano, riconosce la speditezza delle indagini, ringrazia i pm, ma non può fare a meno di vedere i «vuoti» che ancora non riesce a capire: «Qualsiasi astrusa e fantasiosa tesi scientifica e legale non può mettere in discussione la realtà. Stefano era in perfette condizioni di salute, E’ stato brutalmente picchiato e per questo è finito in ospedale, dove ha smesso di vivere».
«Per noi è fondamentale – prosegue Ilaria – sapere cos’è accaduto in quei 6 giorni, un tempo brevissimo, in cui mio fratello ha smesso di vivere. Abbiamo avuto, come famiglia, la forza di reagire ma tutte quelle famiglie che non hanno la forza, i mezzi e le possibilità di affrontare una simile battaglia, allora non avranno giustizia?».