Cosa dice la Costituzione e il perchè il 41bis è in contrasto
di Salvatore Curreri
Era prevedibile, ma non per questo inevitabile, che il dibattito sul c.d. carcere duro finisse vittima delle strumentalizzazioni politiche, radicalizzandosi tra favorevoli e contrari tout court, smarrendo così quel necessario equilibrio con cui invece si devono affrontare questioni così delicate che richiedono un costante quanto difficile bilanciamento tra interessi costituzionali di pari rango: la tutela dei diritti fondamentali del detenuto da un lato e, dall’altro, la salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Non pare quindi inutile ritornare alla Costituzione che non è solo la fonte suprema cui il nostro ordinamento giuridico deve conformarsi ma traccia anche le coordinate entro cui il tema va affrontato e risolto. Sotto questo profilo, è ovvio che il detenuto, in quanto tale, vede i propri diritti limitati dalla condizione carceraria in cui è ristretto. Ma il detenuto è pur sempre una persona che vive in un luogo – il carcere – in cui comunque svolge e sviluppa la propria personalità (art. 2 Cost.). Per questo “la sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (Corte cost. 349/1993).
Per questo motivo la Costituzione – scritta, è bene ricordare, da chi il carcere lo conosceva bene perché c’era stato – punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (art. 13.4). Inoltre “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27.3). Il che significa che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti” (articoli 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, fonti entrambe oggi cui le leggi ordinarie devono conformarsi). Disposizione che solo dopo ben trent’anni e numerose condanne da parte della Corte di Strasburgo, specie dopo i pestaggi di Bolzaneto del 2001, ha trovato attuazione con l’introduzione del reato di tortura (l. 110/2017).
In tale contesto si pone il problema del regime di detenzione differenziato (c.d. carcere duro ex art. 41-bis l. 354/1975), introdotto nel 1986 in funzione di antiterrorismo, esteso nel 1992 ai condannati per mafia, dopo le stragi in Sicilia di Capaci e via D’Amelio e successivamente oggetto di plurime modifiche. Tale regime può essere disposto dal Ministro della giustizia, anche su proposta di quello dell’interno, sentita l’autorità giudiziaria, “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” nei confronti di detenuti, anche in attesa di giudizio, che si ritiene abbiano o hanno commesso specifici e gravi delitti per impedire loro ogni contatto con le organizzazioni malavitose d’appartenenza.
Esso prevede per almeno quattro anni (prorogabili ogni due anni sine die) sensibili restrizioni (v. circolare d.a.p. n. 3676/6126 del 2.10.2017): rigoroso isolamento dagli altri detenuti (due ore di “socialità” con massimo altri quattro detenuti); sorveglianza più stretta; un solo colloquio al mese con familiari e conviventi – eccetto con i difensori a tutela del suo diritto di difesa in giudizio – soggetto a controllo e registrazione e svolto in appositi locali che impediscano il contatto fisico ed il passaggio di oggetti; controllo del tempo trascorso fuori dalla cella; divieto di ricevere e spedire libri e riviste dall’esterno; visto di censura sulla corrispondenza.
Più volte nel tempo la Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare della costituzionalità di tale speciale regime carcerario perché ritenuto disumano e degradante. Essa però ha sempre respinto tali obiezioni in ragione della particolare pericolosità di tali detenuti e delle prevalenti legittime esigenze di prevenzione del crimine e di sicurezza pubblica. Lo stesso dicasi per la Corte europea dei diritti dell’uomo in casi specificamente riguardanti l’Italia proprio in ragione della specifica situazione criminale del nostro Paese (2.1.2010, Mole; 19.1.2010 Montani). Piuttosto i giudici sono intervenuti a garanzia di specifici diritti del detenuto, a partire da quello di poter sempre ricorrere al giudice contro simili misure (Corte EDU Grande Camera 17.9.2009 Enea c. Italia), così da permettergli di controllare l’effettiva sussistenza dei presupposti e le concrete modalità di applicazione di tale regime carcerario. Non a caso, il nostro paese è stato condannato nel 2018 dalla Corte europea per l’applicazione del 41-bis a Bernardo Provenzano nonostante fosse stato accertato il deterioramento delle sue capacità cognitive.
Così la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali, ritenendoli contrari al senso di umanità della pena, il divieto di cuocere cibi in cella – che anzi costituisce “una modalità umile e dignitosa per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni, nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine” (C. cost. 186/2018) – nonché quello di scambiare oggetti purché non segnalino, anche per il valore, la supremazia del detenuto sugli altri (C. cost. 97/2020; Cass. 7939/2022). In quest’ottica costituzionalmente ispirata si è posta la I sezione penale della Cassazione secondo cui i detenuti soggetti al 41-bis: non possono vedersi ridurre le poche ore d’aria (17579/2019); possono salutarsi tra loro (35216/2020); ricevere quotidiani purché non riportino notizie d’interesse criminale (21803/2020; 21942-3/2020); sottoporsi a fisioterapia (52526/2018); effettuare videochiamate ai propri familiari (23819/2020); consegnare personalmente doni ai figli minori di dodici anni (46432/2021).
Non è quindi in discussione la costituzionalità in sé del c.d. carcere duro, né tantomeno la sua efficacia o utilità, quanto piuttosto le sue specifiche modalità attuative quando inutilmente vessatorie e dunque lesive della dignità del detenuto. Esso dunque va limitato a quei casi per cui risulta effettivamente motivato ed indispensabile e scremato da tutti quei divieti che, anche in considerazione delle condizioni del detenuto e del tempo trascorso, paiono frutto di una concezione vendicativa e non rieducativa della pena. Ricordandosi sempre che lo Stato, come tale, non può mai per ritorsione scendere al livello dei suoi nemici, dai quali può e deve difendersi, con una mano utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione ma con l’altra “legata dietro la schiena”, nel più rigoroso rispetto della legalità costituzionale, senza abusare del proprio potere.
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