Contributo al dibattito per la costruzione di un movimento antipenale e abolizionista di Vincenzo Scalia docente all’ University of Winchester (UK)
Parlare di abolizionismo, in tempi di securitarismo dilagante, di legittima difesa, di caccia al terrorista presunto da ostentare come trofeo, suona quasi come una bestemmia. In realta’, se si scrosta la patina ideologica ed emozionale, e si analizza in profondita’ la sfera carceraria, ci troviamo di fronte ad una pluralita’ di ragioni, di tipo funzionale, politico e valoriale, che suggeriscono di immettersi sulla strada dell’abolizionismo.
Innanzitutto, il carcere non rappresenta un orizzonte irreversibile della punizione. La reclusione cellulare rappresenta un’istituzione della modernita’, che mirava, da Beccaria in poi, a rendere la punizione meno disumana della punzione pre-moderna. Oggi la carcerazione riguarda poco piu’ della meta’ degli autori di reati. In Italia siamo attorno a 60.000 detenuti, a cui vanno aggiunti altrettanti in esecuzione penale esterna, detenzione domiciliare, messa alla prova.
In secondo luogo, come non e’ oggettiva la punizione, non lo e’ nemmeno il crimine. Per esempio, fino al 1981 era un reato l’adulterio (commesso dale donne) ma non lo era il delitto d’onore, che, se veniva punito, lo era in modo blando. Dal 1990 in poi, a fare schizzare verso l’alto la detenzione, hanno contribuito principalmente due tipi di legislazione: quella sul consumo degli stupefacenti, e quelle sulle migrazioni. Queste ultime hanno spinto I migranti nell’alveo dell’economia illegale, alimentando il circuito dei reati legati alla violazione della legge sugli stupefacenti. Basterebbe legalizzare gli stupefacenti e implementare politiche di accoglienza per ridurre drasticamente I reati di strada. Furto, spaccio, scippo, rapina, rissa, lesion, rappresentano il 75% dei reati commessi. Anche la criminalita’ organizzata risulterebbe drasticamente ridimensionata da una politica antiproibizionista. Non bisogna nemmeno dimenticare che il 50% dei reclusi viene prima o poi assolto in uno dei gradi di giudizio.
In terzo luogo, come notano i zemiologisti inglesi (Tombs, Whyte, Scraton, 2015), la criminalita’ di strada spesso viene coperta da polizze assicurative, e non richiede necessariamente la reclusione. Mediazione penale o ammende potrebbero coprire questa fattispecie di reati.
In quarto luogo, la produzione della devianza, come ci ricordano Melossi e Pavarini (2018, II edizione), avviene selezionando l’utenza tra gli strati marginali e subalterni della popolazione: meridionali, operai, contadini, disoccupati, vagabondi, prostitute, migranti, hanno da sempre costituito il nocciolo duro del circuito penale, producendo e riproducendo logiche di dominio e di sottomissione di classe.
Inoltre, le carceri rappresentano un luogo di sofferenza, lungi dall’essere quegli alberghi a cinque stele che si vorrebbe far credere. Il sovraffollamento e’ il primo problema: in Italia, 60.000 detenuti, occupano lo spazio destinato a 42.000, con una situazione ancora piu’ grave nelle case circondariali. Il 25% dei detenuti e’ affetto da patologie gravi: tubercolosi, AIDS, Epatiti di vario tipo…I suicidi si verificano in ragione di 1 ogni 1000 detenuti, cento volte di piu’ rispetto all’esterno. Chiudere questi luoghi di sofferenza servirebbe a rendere piu’ umana la societa’.
Infine, l’investimento nella sfera penale (Christie, 1996; Wacquant, 2003) sottrae risorse per l’istruzione, gli alloggi, la sanita’, il welfare, generando un’economia della pena che contribusice a costruire profitti imprenditoriali, carriere politiche, salari, a detrimento dell’integrazione sociale di vaste parti della popolazione. La privatizzazione della sfera penitenziaria, che in alcuni paesei europei e negli USA e’ gia’ andata avanti, rappresenta una nuova soglia affaristica, con la creazione di un business penitenziario che va a detrimento del rispetto dei diritti individuali.
Aboliamo il carcere, prima che sia tardi!
Vincenzo Scalia – University of Winchester (UK)
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