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Ecco perché hanno massacrato Stefano Cucchi

Doveva essere una “brillante operazione antidroga”. Ma la coca non venne trovata. Di qui le botte. L’ipotesi su cui lavora la procura di Roma

Nel caso Cucchi due sole sono le cose certe: i segni del pestaggio e la morte. Tutto il resto è stato avvelenato da bugie, depistaggi, verità di comodo. Tuttavia, tra le carte e le testimonianze finora raccolte dagli inquirenti, concentrati sull’inchiesta bis sulla morte del ragazzo, c’è qualche indizio sulla genesi di quella violenza e in particolare sulla condotta dei carabinieri che hanno avuto in custodia Stefano la sera dell’arresto. La procura della Capitale indaga infatti su cinque militari dell’Arma e ha raccolto testimonianze decisive per delineare il contesto in cui è maturata la violenza. Il pestaggio più grave, infatti, andrebbe collocato subito dopo la perquisizione, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. E il movente, peraltro suggerito già nella sentenza di primo grado, è da rintracciarsi nella delusione per un’operazione non riuscita, con i carabinieri “infastiditi” dall’atteggiamento del giovane poco collaborativo. L’ipotesi probabile insomma è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo.

È questo lo scenario che emerge dalle informative in mano ai pm che da più di un anno lavorano alla nuova indagine. E che gli stessi magistrati hanno tentato di approfondire durante gli interrogatori. Una dinamica di questo tipo spiegherebbe anche perché non è mai stato fatto il fotosegnalamento, obbligatorio in caso di arresto. Foto e impronte mancanti, per nascondere i segni sul volto del ragazzo, già picchiato. Altro tassello mancante in una storia torbida di giustizia negata, dove persino una perizia, l’ultima, sul corpo di Cucchi genera ulteriori polemiche sulla probabile causa di morte. Un esercizio di equilibrismo compiuto dai periti, in cui riconoscono le fratture delle vertebre, ma sostengono che Stefano potrebbe essere morto di epilessia.

«LA COSA E’ ANDATA TROPPO OLTRE»

Il movente, dicevamo. Tracce del lavoro di ricostruzione dei pm ricorrono nel verbale dell’interrogatorio di un testimone chiave, l’appuntato Riccardo Casamassima. Sarà lui ad accusare Roberto Mandolini (indagato per falsa testimonianza), all’epoca comandante della stazione Appia, quella da cui partirono i militari per arrestare Cucchi. Mandolini sapeva, sostiene il teste. Tanto da confessargli: «È successo un casino i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato». E Casamassima, nel verbale del 30 giugno 2015, si spinge oltre: «Sembrerebbe una cosa preparata prima, cioè che i carabinieri sapevano che Cucchi aveva un quantitativo importante e lo cercavano a casa dei genitori, non trovando nulla per estorcergli hanno cominciato a menarlo». Il procuratore Giuseppe Pignatone commenta: «Che è andata oltre…». Gli inquirenti insistono, gli chiedono di spiegarsi meglio: «Dottore è inusuale, quando io faccio più di un arresto durante l’anno per me diventa una cosa di routine, invece gente che non è abituata a fare questo tipo di attività si sono esaltati e può essere scattato qualcosa nella loro testa».

Infine, prima di chiudere il colloquio con il pm Giovanni Musarò, Casamassima aggiunge: «Il pestaggio di Cucchi era finalizzato a farsi dire dove era custodita la droga che i colleghi pensavano di trovare all’interno dell’abitazione». Dichiarazioni che potrebbero diradare la nebbia di silenzi che avvolge il mistero della morte di Cucchi. E in effetti la droga Stefano ce l’aveva, ma non a casa dei genitori. La custodiva nell’appartamento a Morena. Un quantitativo importante, acquistato da poco.

A consegnare i 900 grammi e passa di hashish e un etto di cocaina alla magistratura saranno i genitori del geometra romano venti giorni dopo la sua morte. Dopo, cioè, essere stati nell’abitazione per recuperare gli effetti personali del figlio. Che qualche anomalia ci sia stata nell’operazione Cucchi, lo rivelano anche le contraddizioni nelle deposizioni dei carabinieri al centro dell’inchiesta della procura capitolina. Pubblicamente escludono che l’arresto sia stato propiziato da confidenti. Privatamente, così emerge dai dialoghi intercettati, questa possibilità invece emerge. Per esempio, Roberto Mandolini racconta di un esposto dei genitori delle scuole Appio Claudio in cui segnalavano un «giovanotto magro col cane che spacciava». Dice anche, Mandolini, che grazie a Cucchi, in passato, avevano fatto altri arresti fornendogli nomi di altri pusher. L’ex comandante fu sentito quale testimone nel primo processo. E sotto giuramento raccontò la sua versione: «C’era un clima particolarmente disteso e l’arrestato era persona tranquilla e spiritosa».

Tale idillio però è, secondo gli investigatori, in palese contrasto con quanto davvero accadde nei momenti successivi al fermo di Cucchi. Il carabiniere scelto Stefano Mollica, in servizio alla stazione Casilina – dove Stefano Cucchi avrebbe dovuto fare il fotosegnalamento come da prassi – dice tutt’altro. Mollica è uno dei due militari incaricati di accompagnare Cucchi dalla caserma di Tor Sapienza, dove aveva trascorso la notte in cella, al tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto. Ai giudici ha raccontato, ma lo ha ribadito di recente davanti ai pm di Roma, che «il rossore del viso di Stefano Cucchi faceva impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia… camminava a fatica, era claudicante, stava malissimo era molto sofferente».

Dice, poi, che giunti al tribunale di piazzale Clodio, incontrano il collega Stefano Tedesco, uno degli autori dell’arresto e ora indagato nell’inchiesta bis. Tedesco si è lasciato sfuggire un particolare – sostiene un altro appuntato quel giorno in compagnia di Mollica – cioè che Cucchi «era stato poco collaborativo al momento del fotosegnalamento». E sempre il collega di Mollica ha aggiunto: «Era evidente che aveva subito un pestaggio». Il fotosegnalamento, come si diceva, non verrà mai eseguito: eppure nel verbale di arresto si legge «identificato a mezzo rilievi fotosegnaletici e dattiloscopici». Perché Cucchi non viene fotografato? Nessuno risponde a questa domanda. Ma una delle ipotesi più probabili, al vaglio anche dei magistrati, è che Stefano era già stato picchiato violentemente. Per questo sarebbe stato meglio evitare foto che potevano diventare prove.

L’ipotesi che il movente del pestaggio sia da ricercare nella delusione dei militari per non aver trovato la grande quantità di droga che si aspettavano ha anche un sostegno giudiziario nella prima sentenza emessa sulla morte di Cucchi, quella che ha assolto gli agenti penitenziari. I giudici della Corte d’Assise sono stati infatti i primi a ipotizzare, seppur quasi di passaggio, che «il Cucchi sia stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa – l’operazione dell’arresto era stata propiziata da una fonte confidenziale – mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente egli abitava». Ed è seguendo questo filo rosso che ora si stanno muovendo gli inquirenti che hanno messo sotto indagine i carabinieri.

QUELLE VERTEBRE FRATTURATE

Insomma, ci sono verità che il corpo livido e senza vita di Stefano Cucchi non potrà mai rivelare. Di quella drammatica notte del 15 ottobre 2009 molte cose restano ancora da chiarire. È in quelle ore che matura la fine di Cucchi.

Sono passate da poco le 23, in via Lemonia, periferia sudest di Roma. Stefano è arrivato da poco, ha appuntamento con Emanuele Mancini. Qui viene fermato mentre gli cede, per 20 euro, un pezzo di hashish. Il verbale di arresto racconta di 20 grammi di fumo sequestrati, due dosi di cocaina e 2 pasticche di ecstasy. In realtà queste ultime non sono pasticche di droga, ma Rivotril per la cura dell’epilessia. A quel punto gli agenti, su ordine del loro superiore maresciallo Roberto Mandolini, procedono alla perquisizione dell’abitazione dei genitori di Stefano, il cui indirizzo è segnato sul documento di identità del ragazzo. Lì sono convinti di trovare il resto della droga. Che, invece, non troveranno.

Ciò che accadrà dopo è un intricato castello di ipotesi e sospetti. L’unica certezza, da quel momento in poi, è che Cucchi viene picchiato. Lo dicono i giudici, lo confermano almeno quattro carabinieri, lo dice anche l’ultima perizia tanto contestata che parla dell’epilessia. Già, la perizia firmata Francesco Introna: frutto di dieci mesi di lavoro e che trascina dietro di sé non poche polemiche. Il legale della famiglia Cucchi aveva chiesto persino l’incompatibilità del professor Introna per la sua passata appartenenza alla massoneria. Alla fine però la “fratellanza” di Introna è stata considerata un’affiliazione datata e ormai non più significativa. Superato questo ostacolo, il lavoro dei periti è proseguito e due settimane fa hanno consegnato i risultati: nessuna causa certa ma due ipotesi, una considerata più probabile dell’altra. La prima: l’epilessia, che gli stessi professori del collegio peritale però definiscono «non documentabile, priva di riscontri oggettivi, ma supportata solo da rilievi clinico-scientifici»; la seconda: la frattura delle vertebra S4, «comunque indotta che avrebbe provocato l’insorgenza della vescica neurogenica», cioè di una disfunzione dell’apparato urinario.

E proprio questo punto che la difesa della famiglia Cucchi utilizzerà nelle prossime fasi. A partire dalla prossima udienza di incidente probatorio, il 18 ottobre. Mai nessuna perizia prima, infatti, aveva certificato la frattura che avrebbe poi compromesso la vita di Stefano. L’avvocato Fabio Anselmo ha da tempo chiamato a collaborare il professore Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale alla Sapienza, lo stesso che ha svolto l’autopsia, per conto dei magistrati, sul corpo di Giulio Regeni. E che già un anno dopo la morte di Stefano aveva prodotto un’analisi secondo cui Cucchi è morto «per cedimento cardiaco connesso con le entità traumatiche ricevute». In pratica le fratture avrebbero innescato quel processo che poi ha portato al decesso del giovane romano. E quelle stesse fratture potrebbero essere state causate dalle botte prese da Cucchi perché i carabinieri non avevano trovato la droga che si aspettavano. «Mio fratello non è morto di epilessia, era in ospedale per le botte ricevute», riflette la sorella Ilaria. Poi fa una pausa, fissa il cartello con scritto via Lemonia: «Era nelle mani dello Stato, al sicuro, invece è stato massacrato».

Giovanni Tizian da L’Espresso