Nelle comunità migranti nel nostro continente, le potenzialità per trovare la chiave della rinascita di Africa e Medio Oriente. Al contrario, respingimenti e xenofobia alimentano il terrorismo
Fermare il flusso dei profughi dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma bisogna aggredirne le cause: guerre, cambiamenti climatici, rapina delle risorse, sfruttamento.
Ci vogliono risorse ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità.
L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita, e vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali. Le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.
C’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Le popolazioni se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando. Possono farlo le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto chi è fuggito da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo. Tutti comunque conoscono territori e comunità di origine meglio di qualsiasi cooperante europeo.
La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà. Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti e valorizzati è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.
L’Europa dovrà confrontarsi con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento. Trattarli come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi. Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.
Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange. E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan). Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…
Riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.
I morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo. E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.
Guido Viale
da il manifesto