Un insegnate qualche giorno fa si è trovato in casa la polizia per aver pubblicato un post su instagram in solidarietà con la Palestina. Successivamente il dirigente scolastico gli ha impedito di continuare a lavorare
Si è visto entrare nella sua camera da letto i poliziotti del Nucleo Antiterrorismo per una “perquisizione urgente”, dunque senza mandato da parte della magistratura, alla ricerca di armi ed esplosivi, seppur fosse del tutto incensurato. La perquisizione ha dato esito negativo, ma è stato comunque portato in Questura, dove ha dovuto mostrare il suo cellulare ai poliziotti, che hanno visionato le sue conversazioni private, la sua galleria fotografica e una serie di post da lui pubblicati. Una volta tornato a casa, ha ricevuto una telefonata dal suo capo – il preside della scuola per cui lavora come assistente educativo a Roma -, il quale gli ha comunicato di non recarsi più nell’istituto, perché la polizia gli avrebbe chiesto di tenerlo lontano per “motivi di sicurezza”. È quanto accaduto a Yussef, algerino trapiantato in Italia dal 2003, completamente incensurato, che in quella scuola ci lavora da ben nove anni. Eppure, da un giorno all’altro e senza nessun apparente motivo, è arrivato un fulmine a ciel sereno che sembra avergli cambiato la vita. Può sembrare un fatto assurdo, ma lo pubblichiamo dopo aver fatto tutte le verifiche del caso, avendo parlato col diretto interessato, con la scuola, ed avendo potuto visionare il referto di perquisizione redatto dalla polizia.
Yussef non è il suo vero nome, e l’utilizzo di uno pseudonimo è dato dalla nostra volontà di proteggerlo da ogni possibile ulteriore conseguenza. L’importante, per il lettore, è la vicenda, che è stata verificata.
Mercoledì 17 gennaio, Yussef è a casa a riposare nel suo giorno libero dal lavoro. Ad un tratto suona il campanello e il suo coinquilino va ad aprire. Nell’abitazione fanno ingresso i poliziotti della Divisione Investigazioni Generali Operazioni Speciali della sezione Terrorismo, che entrano nella camera da letto di Yussef per una perquisizione. Lui si mostra gentile e cooperativo, perché sa di non avere nulla da nascondere, ma chiede ai poliziotti di mostrare il mandato di perquisizione. Loro gli rispondono che non serve. Ai sensi dell’art. 41 del T.U.L.P.S., infatti, si può evitare di chiedere la preventiva autorizzazione da parte del pm ove sussistano “particolare necessità ed urgenza”. Il poliziotto gli si rivolge: «Hai delle armi o degli esplosivi?». Yussef comincia a ridere. Non ha mai commesso reati né in Algeria, da dove è arrivato come rifugiato politico, né in Italia; il suo casellario giudiziario è vuoto e non fa parte di gruppi o organizzazioni di nessun tipo. La perquisizione, infatti, dà esito negativo. Particolare che abbiamo verificato leggendo il verbale di perquisizione redatto dagli agenti, che conferma che gli agenti non hanno trovato nulla.
I poliziotti dicono a Yussef di seguirli in Questura. Lì gli chiedono di mostrare i contenuti del suo telefonino, perché vogliono controllare il suo Whatsapp, il suo Instagram, le sue conversazioni e la sua galleria fotografica. Lui è impietrito e glieli fa vedere. «Quando mi hanno chiesto di aprire il mio telefonino e di fare vedere tutto ero sotto shock, altrimenti non lo avrei fatto, ma tengo a dire che mi hanno riferito che, se non l’avessi fatto, loro avrebbero sequestrato il cellulare», racconta Yussef a L’Indipendente. Ad ogni modo, i poliziotti trovano sulle sue stories di Instagram una foto dei bambini palestinesi morti nei massacri a Gaza, con la scritta “fino a oggi 10.000 bambini morti”. «Perché l’hai scritto?», gli chiede uno di loro. «Perché è la verità», risponde lui. Per due giorni, nel suo stato Whatsapp, Yussef ha tenuto pubblicata la foto del leader di Hamas. «Ho detto loro che, secondo quello che penso, Hamas non è un’organizzazione terroristica ma un gruppo che sta facendo la resistenza: d’altronde, i miei antenati in Algeria, ai tempi del colonialismo, sono stati chiamati ‘terroristi’, ma oggi sono ricordati come grandi figure della storia». Condivisibili o meno, queste sono le sue idee. I poliziotti lo lasciano andare. Non prima di aver scattato tre foto ad alcuni contenuti trovati nel cellulare: l’immagine dei bambini palestinesi morti, quella del capo di Hamas e una fotografia di Ursula Von der Leyen. Il capitolo peggiore di questa storia, almeno per l’impatto che ha avuto sulla vita di Yussef, si apre però quando l’uomo riceve la chiamata del preside della scuola in cui lavora, il quale gli dice di aver saputo dei suoi «problemi con la polizia» e gli comunica che la stessa polizia avrebbe chiesto alla direzione dell’istituto di vietare a Yussef di tornare al lavoro «per motivi di sicurezza». E il preside ha deciso di dare seguito a quella richiesta, che suona tanto come un ordine. In un colpo solo, dunque, due diritti costituzionalmente garantiti – quello alla libertà della manifestazione di pensiero e quello al lavoro – sono stati calpestati.
«Sono un rifugiato politico da 10 anni e lavoro in questa scuola da 9 anni, da 6 anni con contratto indeterminato. Sono completamente incensurato, sia qua che in Algeria. Non ho mai avuto a che fare con organizzazioni terroristiche. Penso, però, di avere il sacrosanto diritto di manifestare il mio pensiero», ci racconta Yussef, che dice di avere anche ricevuto una telefonata di Moni Ovadia, che gli ha espresso solidarietà per quanto accaduto. «Hanno violato la mia intimità a casa e sul mio telefonino – denuncia Yussef -. Penso che se fossi stato un europeo o un italiano non avrei subito lo stesso trattamento. Sono algerino, musulmano, extracomunitario e rifugiato politico, ma ciò non vuol dire che ho scritto in fronte ‘sono una persona sospetta’. La mia reputazione è già stata scalfita da questa storia nel mio ambiente di lavoro, infatti ho voluto spiegare sul gruppo Whatsapp a cui partecipo con i miei colleghi tutto l’accaduto». Yussef esprime alcune perplessità in merito a una circostanza capitatagli il giorno successivo a quello della perquisizione: «Su Instagram accetto soltanto contatti fidati e persone che conosco. Giovedì mi è arrivata una richiesta di amicizia sulla piattaforma da parte di un utente con nome arabo e con una foto profilo che raffigura una bandiera nera, con scritte in lingua araba. La tipica immagine che usano i terroristi. Ciò mi è parso molto sospetto». Chiediamo a Yussef per quale motivo abbia voluto rendere pubblica questa storia, con tutte le imprevedibili conseguenze del caso: «L’ho fatto perché non voglio che questa vicenda passi inosservata. L’ho fatto perché non voglio che altre persone che hanno avuto l’unica colpa di esprimere liberamente il loro pensiero si trovino a subire le stesse ingiustizie che ho subito io». Abbiamo provato a contattare la scuola per cui Yussef lavora al fine di ottenere il punto di vista della direzione su questa storia. Non hanno smentito l’accaduto, ma ci hanno comunicato che, per il momento, non sono intenzionati a rilasciare nessuna dichiarazione. (Stefano Baudino da L’Indipendente)
La testimonianza raccolta da Radio Onda Rossa Ascolta o Scarica
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