«Omessa iscrizione nel registro delle notizie di reato dei fatti denunciati nell’esposto del Garante dei detenuti per il Lazio pervenuto presso la procura di Viterbo l’8 giugno 2018». Con questa motivazione il giudice per le indagini preliminari di Perugia Valerio D’Andria ha ordinato alla procura del capoluogo umbro di riaprire le indagini sull’operato dei magistrati requirenti di Viterbo per verificare se ci sia stato un rifiuto d’atti d’ufficio (articolo 328 del codice penale) a seguito degli esposti presentati dal Garante regionale Stefano Anastasia sui pestaggi subiti da alcuni detenuti all’interno del carcere Mammagialla e in particolare sulle violenze cui fu sottoposto Sharaf Ramadan Meckemar Hassan, detenuto egiziano suicida, impiccatosi nella sua cella il 31 luglio 2018.

Il giudice è intervenuto confermando l’archiviazione del fascicolo aperto dalla Procura generale presso la corte d’Appello di Roma nei confronti di un sostituto procuratore di Viterbo che era stato indagato e poi scagionato perché i fatti a lui contestati «non costituiscono reato». La richiesta di archiviazione era stata avanzata anche dalla stessa Procura generale che nel dicembre 2021 aveva avocato a sé il “caso Mammagialla”, togliendolo ai colleghi di Viterbo perché questi si erano limitati ad indagare solo per istigazione al suicidio. Nello stesso provvedimento però il Gip di Perugia (procura di competenza nei casi di denuncia penale a carico della magistratura laziale) ha rilevato che «l’esposto presentato dal Garante dei detenuti faceva riferimento ad una pluralità di episodi violenti che avevano interessato numerosi detenuti e per i quali era quantomeno ipotizzabile il delitto di cui all’articolo 571 c.p.», ossia l’«abuso dei mezzi di correzione o di disciplina».

All’epoca degli esposti presentati da Anastasia, infatti, Hassan – tossicodipendente di 21 anni e 50 kg di peso, detenuto in isolamento in un carcere per adulti malgrado, per esplicita richiesta della pubblica accusa, avrebbe dovuto essere trasferito in un carcere minorile perché scontava una pena per un reato (detenzione di una piccola quantità di hashish) commesso quando era minorenne – aveva raccontato «di essere stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria che gli avrebbero provocato lesioni per tutto il corpo e con molta probabilità gli avrebbero lesionato il timpano dell’orecchio sinistro in quanto non riusciva più a sentire bene e sentiva il rumore “come di un fischio”».

«Mentre raccontava quanto aveva subito – scrive il Gip nell’ordinanza riportando stralci significativi dell’esposto di Anastasia – Sharaf velocemente si spogliava così da mostrare i segni sul corpo». Eppure, sottolinea il Gip, esiste un certificato stilato da una donna medico che non è mai stata indagata malgrado abbia messo nero su bianco l’«idoneità al regime di isolamento ordinario del detenuto». Quando si suicidò, Hassan aveva da scontare ancora solo 48 giorni di carcere.

Non basta: quando la procura di Viterbo tentò di archiviare il caso di Hassan, le parti civili si opposero. Era il 2019, ma l’udienza camerale fu fissata a 5 anni di distanza, nel 2024, e solo dopo un ricorso venne anticipata di due anni. Ora il Gip di Perugia vuole indagare anche su quel grave episodio, ipotizzando ancora il rifiuto d’atti d’ufficio.

Bisognerebbe essere grati al giudice D’Andria e, prima ancora, al Garante dei detenuti per il Lazio. Eppure, è bastato che Stefano Anastasia plaudesse all’«accertamento dei fatti», sia «nell’interesse delle persone che hanno denunciato i maltrattamenti che della stessa amministrazione penitenziaria, che ha interesse a essere trasparente e ad accertare eventuali responsabilità», che i sindacati di polizia penitenziaria (Sappe, Osapp, Sinappe, Cnpp, Uspp, Cisl, Uil: ossia tutti esclusa la Cgil) si siano sentiti chiamati in causa: «Altro che garante dei detenuti – scrivono in una nota congiunta dove denunciano l’aggressione di un agente da parte di un detenuto – Qui lo Stato dovrebbe prevedere il garante della polizia penitenziaria, quello della legalità, quello dalla parte giusta. Siamo continuamente sotto le aggressioni fisiche, che fanno coppia a quelle mediatiche». E, dopo aver rimarcato il continuo «depauperamento del reparto di Viterbo», chiedono «immediatamente le famose body cam», le telecamere per filmare in diretta le aggressioni subite, dicono, «ad ogni intervento».

da il manifesto