Franco Serantini era nato a Cagliari nel 1951 e fu abbandonato, alla nascita, presso il brefotrofio della città. A due anni venne affidato ad una coppia siciliana, ma subito dopo la madre adottiva si ammalò di tumore e morì; al vedovo, rimasto solo, non fu concesso di perfezionare le pratiche d’adozione. A nove anni Franco tornò al brefotrofio di Cagliari, dove rimase fino al 1968, quando la direzione dell’istituto comunicò al tribunale minorile di non essere in grado di seguire il ragazzo, che non si applicava agli studi. Il giudice ritenne che la soluzione migliore per risolvere la crisi adolescenziale di Franco era di rinchiuderlo in un riformatorio, e così il ragazzo fu inviato all’Istituto di rieducazione maschile di Pisa, «in regime di semilibertà», cioè doveva mangiare e dormire in istituto.
A Pisa, Franco scoprì però l’impegno politico, il che, se da una parte gli permise di non cadere nella trappola della delinquenza comune (cosa che accade invece troppo spesso in situazioni come la sua), dall’altra parte segnò invece la sua condanna a morte. Fu attivo nei movimenti solidali che organizzavano mercatini a basso costo, si avvicinò al movimento anarchico, ma frequentò anche l’ambiente politico di Luciano Della Mea, marxista libertario che rappresentò per lui la famiglia che non ebbe mai.
È alle ricerche di Serantini che dobbiamo il ritrovamento del noto bando firmato da Giorgio Almirante quando era capo gabinetto dell’Ufficio di PS di Paganico (GR), nel quale si comunica ai renitenti alla leva che saranno fucilati alla schiena.
(https://www.bfscollezionidigitali.org/oggetti/19282-franco-serantini-durante-una-manifestazione?i=18)
Pisa dopo il 1968 era una città ricca di vita politica. A Pisa fu fondato il gruppo del “potere operaio pisano” (da non confondere con il Potere operaio di Piperno, Negri e Scalzone) che diede poi vita a Lotta Continua, guidato (tra gli altri) da Luciano Della Mea ed Adriano Sofri. A Pisa in quegli anni i leader della gioventù comunista erano Massimo D’Alema e Fabio Mussi. All’Università di Pisa erano iscritti molti studenti antifascisti greci, in esilio a causa della dittatura dei colonnelli. Pisa fu teatro di numerosi scontri tra fascisti e polizia, tra fascisti ed antifascisti, tra antifascisti e polizia, e fu proprio in occasione di una manifestazione antifascista che Franco Serantini, che nel frattempo era diventato militante anarchico, fu picchiato a morte dalla polizia.
Il 5 maggio, giorno di chiusura della campagna elettorale, era previsto un comizio del deputato missino Giuseppe Niccolai, contro il quale Lotta Continua e gli anarchici avevano indetto una manifestazione di protesta.
Il sindaco Lazzari, tenuto conto delle dimensioni ristrette della piazza e della sua posizione, in mezzo a viuzze strette e tortuose, e temendo incidenti (come era già avvenuto nei giorni precedenti in altre città della Toscana) chiese assieme alla Giunta ed ai rappresentanti di alcuni partiti (PCI, PSI e PSIUP) alle autorità di spostare il comizio in una zona meno centrale, ma senza alcun esito. In compenso in città vennero fatti affluire 800 uomini del I raggruppamento celere, 500 carabinieri e 100 carabinieri paracadutisti per appoggiare i reparti di PS della città.
«Il deputato missino parla in una piazza circondata da scudi, elmi, caschi a visiera, tromboncini coi lacrimogeni in canna, mitra puntati. I fascisti sono forse duecento, gridano “Italia, Italia”, il deputato parla un’ora e mezzo, una donna, Morena Morelli, arriva fin sotto il palco, sbeffeggia l’oratore, gli dà del fascista e viene arrestata».
Verso le 18.30 iniziarono le cariche della polizia contro i manifestanti, ed il centro storico di Pisa visse più di tre ore di guerriglia urbana. La polizia lanciò lacrimogeni non solo sui manifestanti, ma anche dentro i portoni delle case e persino contro il palazzo municipale.
«Il sindaco Lazzari si affaccia ad una finestra del palazzo Gambacorti e grida ai poliziotti di smetterla di prender di mira il Comune. “Dissi che ero il sindaco, che era in corso una riunione di giunta (…) nessuno dall’alto minacciava la polizia. Puntavano le armi in su, sparavano un candelotto dopo l’altro, davano l’impressione di essere drogati. Non è che dessero ascolto alle mie parole, seguitavano a lanciare candelotti contro le bifore”».
Decine furono i manifestanti picchiati e malmenati, alcuni, colpiti dai lacrimogeni, dovettero essere ricoverati all’ospedale. Alcuni testimoni dichiararono di avere visto agenti di polizia sparare con le pistole ad altezza d’uomo tra i manifestanti.
Franco Serantini si trovava sul Lungarno Gambacorti, ma inspiegabilmente, invece di scappare nei vicoli, si attardò nella strada. Così ha raccontato un abitante del Lungarno, Moreno Papini.
«… ho visto che stavano agguantando uno (…) una quindicina di celerini gli sono saltati addosso e hanno cominciato a picchiarlo con una furia incredibile. Avevano fatto cerchio sopra di lui tanto che non si vedeva più, ma dai gesti dei celerini si capiva che dovevano colpirlo sia con le mani che coi piedi, sia coi calci dei fucili. Ad un tratto alcuni celerini sono scesi dalle camionette lì davanti e sono intervenuti (…) “Basta, lo ammazzate!” (…) uno che sembrava un graduato è entrato nel mezzo e con un altro celerino lo hanno tirato su. Solo in quel momento l’ho potuto vedere in faccia, perché teneva la testa ciondoloni sulla schiena…».
Franco fu arrestato e condotto nella caserma di PS. Tutti coloro che lo videro nello stanzone dove erano stati messi gli arrestati, testimoniarono che si vedeva chiaramente che stava molto male: non era in grado di tenere la testa sollevata, non riusciva a parlare, aveva un colore giallastro in faccia. Ciononostante nessuno pensò di farlo ricoverare all’ospedale, e neppure di farlo vedere da un medico, lo portarono al carcere, dove venne interrogato dal magistrato di turno, che sostenne di avere chiesto per lui una visita medica, particolare che l’avvocato d’ufficio disse di non ricordare. Franco fu visitato solo quattro ore dopo l’interrogatorio, ma il medico si limitò a prescrivergli una borsa di ghiaccio, non gli misurò la pressione, non gli fece fare alcuna radiografia. Riportato in cella, i suoi compagni si preoccuparono vedendolo peggiorare ma per tutta la notte del sabato nessuno prese dei provvedimenti. Solo la domenica mattina Franco venne portato al pronto soccorso del carcere, ma ormai troppo tardi: il suo cuore smette di battere alle 9.45 ed il medico del carcere scrisse nel certificato “emorragia cerebrale”.
La notizia della sua morte si diffonde, e solo per la mobilitazione degli amici e per l’ostinazione dell’impiegato dello stato civile, che si rifiutò di firmare l’autorizzazione al trasporto della salma, perché, trattandosi di morte violenta, era necessaria l’autorizzazione della Procura, l’omicidio di Franco Serantini non verrà insabbiato. È Luciano Della Mea ad attivarsi per primo e contatta l’avvocato Bianca Guidetti Serra per fare una denuncia. L’avvocato rintraccia una vecchia legge di azione popolare «che permette a qualsiasi cittadino di costituirsi parte civile in tutela di un assistito da un istituto benefico che sia senza genitori o parenti» (ricordiamo che per le leggi dell’epoca Franco era minorenne al momento della morte, non avendo ancora compiuto 21 anni). In questo modo potrà iniziare l’indagine.
(https://www.bfscollezionidigitali.org/oggetti/19325-pisa-i-compagni-di-lotta-continua-in-corteo-il-giorno-dei-funerali-di-franco-serantini-9-maggio-1972?i=9)
L’esito dell’esame necroscopico è una relazione che fa spavento. Così dichiarò l’avvocato Sorbi, che aveva assistito alla perizia.
«È stato un trauma assistere all’autopsia, veder sezionare quel ragazzo che conoscevo. Un corpo massacrato, al torace, alle spalle, al capo, alle braccia. Non c’era neppure una piccola superficie intoccata. Ho passato una lunga notte di incubi».
Ma alla fine l’indagine non porterà alla punizione di nessun colpevole. Non si potranno identificare i poliziotti responsabili della morte di Franco (avevano i caschi); nessuno di coloro che non fece visitare il ragazzo verrà perseguito.
«Nel maggio 1972 il commissario Giuseppe Pironomonte che ha cercato, con l’arresto, di sottrarre Serantini alla furia degli agenti, dà le dimissioni dalla polizia. (…) dopo la morte del giovane anarchico subisce una profonda crisi, capisce che quello del poliziotto, così come viene fatto in Italia, non è il mestiere adatto a lui, capisce che è difficile tentare di mutare il sistema dall’interno e abbandona la PS».
Un breve cenno infine sulla figura dell’allora questore di Pisa, dottor Mariano Perris: egli aveva precedente prestato servizio come dirigente della squadra politica a Milano e Torino, ed il suo nome fu rinvenuto, nel corso di una perquisizione negli uffici della FIAT il 5/8/71, ordinata dal pretore Guariniello, tra quelli dei dirigenti di PS che avrebbero incassato mazzette dalla FIAT per il controllo dell’attività politica dei dipendenti dell’azienda (su questo si veda la pubblicazione curata da Lotta Continua nel 1972, Agnelli ha paura e paga la questura).
Dopo Pisa, Perris fu nominato questore a Milano; ma dobbiamo ricordare che nel periodo dell’occupazione germanica di Trieste era stato uno dei dirigenti (era a capo della “squadra giudiziaria”) dell’Ispettorato Speciale di PS, più noto in città come la “banda Collotti”, corpo collaborazionista che si distinse per la ferocia con cui i suoi membri conducevano la repressione antipartigiana. La squadra di Perris era incaricata di arrestare criminali comuni da ricattare o intimidire (nel corso del processo alla “banda” un testimone asserì che l’apparecchio per le torture con l’elettricità «passava anche nell’ufficio di Perris») per infiltrarli nel movimento partigiano o da usare direttamente nelle operazioni di rastrellamento.
Perris evitò di essere processato per collaborazionismo assieme agli altri dirigenti del Corpo avvalendosi di un affidavit fornito dal CLN triestino (di matrice nazionalista ed anticomunista): un testimone asserì che la sua squadra non si occupava di questioni politiche (e non fu approfondito il ruolo di essa), cosicché il commissario continuò la propria carriera nella PS della “repubblica nata dalla Resistenza”, con il curriculum che abbiamo visto.
scheda a cura di di Claudia Cernigoi da La Bottega del Barbieri
Note:
Tutte le citazioni virgolettate sono tratte dal bel libro di Corrado Stajano, Il sovversivo, pubblicato da Einaudi nel 1975. Le foto sono riprese dall’archivio digitale della Biblioteca Franco Serantini BFS di Pisa.
Nella pagina https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=954&lang=it si trova il testo della Ballata per Franco Serantini, scritta da Piero Nissim sulla melodia della Ballata di Sante Caserio.
IN MEMORIA DI FRANCO SERANTINI, UN “SOVVERSIVO DIMENTICATO”
di Gianni Sartori
Così come per altri anniversari, anche il 51° dell’assassinio di Franco Serantini, è andato inosservato o quasi. In memoria del giovane anarchico massacrato dalla polizia a Pisa nel maggio 1972 Ivan della Mea (16 ottobre 1940 – 4 giugno del 2009) aveva scritto una canzone: «…da morto fai paura / scatta l’operazione, rapida sepoltura / E’ solo un orfano, fallo sparir / nessuno a chiederlo potrà venir…».
Nel 1997, quando lo intervistai, Ivan mi raccontò di averlo incontrato qualche volta a casa di suo fratello Luciano (Luciano Della Mea, scrittore, 1924-2003). Luciano ebbe un ruolo non indifferente nel denunciare il pestaggio subito da Franco. Si costituì parte civile con Guido Bozzoni riuscendo a impedire la frettolosa, già richiesta, inumazione del cadavere di Serantini. Da ricordare anche il ruolo dei fratelli Della Mea nelle polemiche che poi sfociarono in due manifestazioni distinte a Pisa.
Riporto testualmente quanto mi disse Ivan all’epoca dell’intervista (1997): «Franco Serantini era molto amico di mia nipote, Maria Valeria Della Mea, anarchica e figlia di Luciano, mio fratello. La ballata in realtà venne scritta da un numeroso gruppo di compagni di varia tendenza, dagli anarchici a Lotta continua. Io mi limitai ad alcuni aggiustamenti metrici e per la musica usai quella di una ballata dedicata a Felice Cavallotti. A Pisa vi furono due manifestazioni perché c’era chi voleva a tutti i costi appropriarsi della morte di Franco, installarci la sua bandierina. Questa era, in sostanza, la posizione di Adriano Sofri. Invece Luciano, mio fratello, riteneva che la formidabile ondata di sdegno e solidarietà che la morte del giovane anarchico (massacrato dalla Celere e poi lasciato morire in carcere ndr) fosse troppo preziosa per farne una questione di bandiera. Alla fine si tennero due distinte manifestazioni: in una parlò Adriano Sofri, nell’altra Umberto Terracini. Se non ricordo male anche tra gli anarchici vi furono valutazioni diverse. Penso fossero più o meno “equamente” distribuiti tra le due manifestazioni. Tra l’altro pioveva che Dio la mandava. Di questo se ne ricordano bene tutti i partecipanti, tranne Marino …”.
(ma questa per dirla con Kiplig, è un’altra storia nda)
Un inciso. Stando alla testimonianza di Valerio, un libertario di Pistoia che prese parte alla manifestazione, ad un certo punto, visto che nel suo intervento Sofri stava poco elegantemente appropriandosi della figura di Serantini, “qualcuno” strappò i fili del microfono per cui il leader di Lotta Continua parlò ma quasi nessuno lo intese.
Quanto alla canzone da lui scritta in memoria di Franco, Ivan mi disse di cantarla ancora anche se «naturalmente è una di quelle canzoni che richiede certe spiegazioni. Io le considero “canzoni d’uso per la memoria storica”». (*)
Anniversario quasi inosservato, dicevo. Eppure la vicenda a suo tempo suscitò una forte emozione. Franco Serantini incarnava suo malgrado la vittima predestinata, il reietto della società, inerme e indifeso, su cui si era scatenata la violenza bruta del Potere.
Franco aveva vent’anni. Era nato in Sardegna nel luglio 1951. Figlio di NN, come allora si diceva. Aveva trascorso la sua breve vita tra brefotrofi e istituti di correzione, prima in Sardegna, poi in Sicilia, di nuovo a Cagliari, a Firenze e infine a Pisa.
In pratica viveva in un regime di semilibertà (pur senza la minima ragione di ordine penale) e doveva mangiare e dormire nell’istituto di rieducazione in piazza San Silvestro. Piccolo di statura, miope, viene descritto da chi lo ha conosciuto (oltre alla famiglia della Mea, cito anche le sorelle Failla e Paolo Finzi) come intelligente e generoso. A Pisa frequentava la scuola di contabilità aziendale ed era affiliato dell’Avis. Sicuramente le sue personali vicissitudini furono determinanti nell’indirizzarlo verso una scelta radicalmente libertaria. Nell’autunno 1971 cominciò a partecipare alle riunioni del gruppo “Giuseppe Pinelli” di via San Martino e proprio in quel periodo conobbe e frequentò assiduamente la famiglia di Luciano della Mea.
Il 5 maggio Franco prese parte a un presidio antifascista indetto da Lotta continua contro un comizio dei fascisti del Movimento Sociale Italiano. Il presidio venne duramente attaccato dalla polizia e Franco si trovò circondato da un gruppo di celerini sul lungarno Gambacorti. Alcune testimonianze confermarono che il giovane non aveva opposto nessuna forma di resistenza.
Nel 1989 una signora mi raccontò di aver assistito dalla finestra al pestaggio e di aver gridato invano ai poliziotti di smetterla perché «così finirete per ammazzarlo». A distanza di anni ogni volta che andava al cimitero, dopo aver portato dei fiori sulla tomba di suo marito, ne portava anche su quella di Franco.
Il giovane anarchico, dopo un durissimo pestaggio, venne trasportato prima nella caserma dei carabinieri e poi nel carcere Don Bosco di Pisa. Il 6 maggio venne interrogato. Nel corso dell’interrogatorio gli contestarono soltanto una ipotetica invettiva e lui, dando prova di un candore che sfiorava l’ingenuità, si dichiarò anarchico.
Dalle sue dichiarazioni: «Fui arrestato mentre scappavo. Mi giunsero addosso una decina di poliziotti e mi colpirono alla testa. Accuso forti dolori al capo ancora attualmente». Nonostante le sue condizioni non venne ricoverato ma messo in cella di isolamento. Il 7 maggio venne trovato privo di sensi nella sua cella; morì alle 9, 45 poco dopo essere stato trasportato al Centro Clinico del carcere. Nel pomeriggio dello stesso giorno le autorità del carcere cercarono di ottenere tempestivamente l’autorizzazione al trasporto e al seppellimento del cadavere, ma l’ufficio del Comune si rifiutò di concedere il benestare alla tumulazione. Fu allora che Luciano Della Mea decise di costituirsi parte civile e richiedere l’autopsia.
L’avvocato Giovanni Sorbi così lo ricordava: «Un corpo massacrato, al torace, alle spalle al capo, alle braccia. Tutto imbevuto di sangue. Non c’era neppure una piccola superficie intoccata…».
Il 9 maggio 1972 venne sepolto con una grande partecipazione popolare. Il discorso di commiato venne pronunciato da un anziano militante anarchico, Cafiero Ciuti.
Sulla sua tomba, anche a distanza di anni, sventolavano sempre una bandiera rossa e una bandiera nera.
Il 13 maggio 1972, dopo una grande manifestazione, venne deposta una lapide in suo ricordo all’ingresso di palazzo Tohuar, sede dell’istituto che aveva ospitato Franco. A Torino gli venne dedicata una scuola e nel 1979 sorse a Pisa la biblioteca – e poi casa editrice – che porta il suo nome. Nel 1982 in piazza San Silvestro, ribattezzata piazza Serantini, venne inaugurato un monumento in sua memoria donato dai cavatori di marmo di Carrara. Anche un noto alpinista – “Manolo” Zanolla – volle dedicargli una sua impresa: sulla parete Sud Ovest del Dente del Rifugio in Val Canali (Pale di San Martino) esiste una impegnativa via di roccia (6° +) intitolata appunto a Franco Serantini.
Nonostante le indagini sulla morte del giovane anarchico finissero sepolte nei “non ricordo” degli ufficiali di PS presenti al fatto, la vicenda rimase a lungo ben presente nell’opinione pubblica grazie a una costante campagna informativa dei giornali anarchici (in particolare “Umanità nova”), del quotidiano “Lotta Continua” e dei comitati “Giustizia per Franco Serantini”. Fondamentale per conservare la memoria di questo ragazzo che credeva nella giustizia e nella libertà fu il libro di Corrado Stajano “Il sovversivo -Vita e morte dell’anarchico Serantini” pubblicato da Einaudi nel 1975. (**)
A oltre mezzo secolo di distanza vorrei ricordarlo ritto in piedi tra il fumo dei lacrimogeni; piccolo grande guerriero armato solo di parole che si erge contro le ingiustizie del mondo mentre attorno a lui si addensano le ombre cupe dei massacratori senza volto.
Gianni Sartori
(*) Un’altra canzone su Franco Serantini la scrisse Pino Masi. Sulla stessa musica di «I dreamed i save Joe Hill last Night» (ricordate l’emozionante esibizione di Joan Baez a Woodstock nel 1969?) con precisi riferimenti anche nel testo, il cantautore di riferimento di Lotta Continua scrisse «Quello che mai potranno fermare» che è conosciuta anche come «Ho fatto un sogno questa notte». Talvolta viene confusa con quella scritta da Ivan Della Mea o con un’altra, sempre per Serantini, composta da Piero Nissim.
(**) Questa vicenda ebbe anche un piccolo risvolto vicentino. La notizia della morte di Serantini arrivò in piazza dei Signori e venne ricordata in un intervento mentre si svolgeva una manifestazione a sostegno degli obiettori di coscienza che all’epoca venivano spediti direttamente nel carcere di Peschiera. Due obiettori, tra cui Matteo Soccio, dovevano consegnarsi alla polizia ma quando salirono sul palco nessuno si fece vivo. Vennero arrestati poco dopo, quasi di nascosto, mentre se ne stavano andando. La cosa suscitò un certo disappunto fra i presenti, scoppiarono tafferugli e due compagni, un padovano e un vicentino, vennero arrestati. Poi numerosi manifestanti si incamminarono verso la questura dove vennero pesantemente caricati. Non posso escludere che la notizia della morte ingiusta di Serantini abbia contribuito ad alimentare l’indignazione dei presenti. Oltre ai due fermati (rimasero in carcere per qualche giorno) vi furono vari contusi (tra cui il fotografo, allora militante anarchico, Giuliano Francesconi) e almeno due feriti abbastanza gravi: per Chiara Stella e per Francesco – non ne ricordo il cognome – la diagnosi fu di commozione cerebrale. Fra l’altro la carica venne ordinata direttamente, per telefono, dal ministro dell’epoca Mariano Rumor, vicentino. In quel momento si trovava nella “sua” città in visita ad un vecchio compagno di scuola. Due figli di questo amico di Rumor (in anni successivi militanti autonomi) erano presenti e raccontarono che arrivò una telefonata dalla questura. La risposta di Rumor fu lapidaria: “Caricateli!”. Poco cristianamente me molto democristianamente.