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Più galera e meno rieducazione. Le mani di Fratelli d’Italia sulla Costituzione

Il deputato Edmondo Cirielli deposita una proposta di legge per modificare l’articolo 27 della Carta: “Salvaguardare e garantire il concetto di certezza della pena”.

di Simona Musco

Limitare la finalità rieducativa” e “salvaguardare e garantire il concetto di certezza della pena”. Sono questi gli scopi principali della proposta di legge costituzionale depositata dal deputato di Fratelli d’Italia Edmondo Cirielli il 13 ottobre scorso. Una proposta che il deputato meloniano aveva già presentato nella scorsa legislatura e nel 2013, con lo scopo di smantellare uno degli articoli della Costituzione più importanti dal punto di vista dell’impianto dello Stato di diritto, ma mai pienamente attuato.

La proposta si collega alla netta contrarietà di Fratelli d’Italia a una modifica della norma sull’ergastolo ostativo, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale che, ad aprile dello scorso anno, ha stabilito l’illegittimità parziale della disciplina ostativa, in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove fa della collaborazione la sola via, per il condannato, di recuperare la libertà. La Consulta ha concesso oltre un anno di tempo al Parlamento per adeguare le norme, con “interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Ma finita la legislatura, le Camere hanno lasciato il lavoro incompiuto: non sono riuscite ad approvare una nuova disciplina, lasciando la palla di nuovo in mano alla Consulta, che nel frattempo, scaduto l’anno concesso al legislatore, ha rinviato ulteriormente la trattazione delle questioni di legittimità dell’articolo 4 bis al prossimo 8 novembre.

La decisione del giudice delle leggi è, dunque, dietro l’angolo. Ma l’intenzione della premier in pectore Giorgia Meloni è quella di scardinare l’impianto della Costituzione, per evitare che “mafiosi conclamati e assassini, invece di rimanere in galera, come vorrebbe il carcere ostativo, possano tornare in libertà a fare i loro comodi perché hanno avuto una buona condotta in carcere, che è una cosa indegna. A me, se hai avuto una buona condotta in carcere, non frega niente”. Tutto ruota intorno alla concezione che Fratelli d’Italia ha della pena, a partire da quelli che il partito considera “evidenti limiti” della finalità rieducativa e riallacciandosi alla teoria della prevenzione generale positiva, secondo cui “la forte disapprovazione sociale favorisce e stabilizza l’identificazione della maggioranza dei cittadini con il sistema di valori protetto dall’ordinamento giuridico”. Scopo della pena, in buona sostanza, è una sorta di emarginazione che induca il reo a non commettere lo stesso errore e gli altri a non “rischiare”, proprio per evitare di finire ai margini della società.

Il diritto penale, dunque, assolve “una funzione di socializzazione, allo stesso modo di istituzioni quali la famiglia, la scuola, il gruppo e la comunità”. Ma per far sì che ciò avvenga, sottolinea Cirielli nella sua relazione, è necessario garantire il “principio di certezza della pena”. Il principio di prevenzione, infatti, sarebbe vanificato dalla possibilità che gli autori dei reati possano rimanere “impuniti”. Proprio per tale motivo, l’articolo 27, che al momento enuncia tre principi fondamentali – la responsabilità penale è personale, l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato – andrebbe smantellato, inserendo il concetto di “giusta punizione del reo”. La pena, dunque, recupera una dimensione principalmente retributiva e di “prevenzione generale e speciale del reato”, tendendo alla rieducazione solo “con la collaborazione del condannato”. L’esatto contrario, insomma, di ciò che ha stabilito la Consulta. In tal modo, continua il deputato, “uno dei limiti del vigente articolo 27, e cioè quello relativo all’impossibilità da parte del giudice di erogare pene esemplari che fungano da ammonimento per i consociati, verrebbe automaticamente eliminato”.

La finalità rieducativa, ormai “in crisi” – affermazione che non tiene conto delle responsabilità della politica, che ha sempre “dimenticato” di intervenire per rendere effettiva la possibilità di risocializzazione ed il reinserimento lavorativo per i detenuti – verrebbe così subordinata e limitata con legge “e in rapporto stretto con le altre finalità di interesse collettivo nonché con le esigenze di difesa sociale”. E sempre con legge, sulla base di tali principi, vengono stabilite “le finalità e le modalità delle misure di sicurezza”. Una visione securitaria che Meloni, nelle sue dichiarazioni pubbliche contro modifiche che renderebbero più compatibile con la Costituzione l’ergastolo ostativo, ha sintetizzato col classico garantismo a intermittenza: “Garantista nella fase dello svolgimento del processo e giustizialista per l’applicazione della pena”.

da il dubbio

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di Damiano Aliprandi

Erano cattolici, liberali e socialisti. Fu un incontro tra personalità che avevano sperimentato il carcere. Il divieto di misure contrarie al senso di umanità è il senso più alto della nostra Costituzione. Ed è contenuto nell’articolo 27, quello secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

È il senso più alto, proprio perché la nostra “Carta più bella del mondo” è ispirata ai principi della difesa massima dei diritti individuali, delle libertà civili e politiche negate nell’esperienza del ventennio fascista.

La nostra Costituzione è esattamente nata da una coscienza unitaria e lo si evince dalla triplice firma apposta alla sua promulgazione del 27 dicembre 1947. Personalità provenienti da visioni politiche differenti e soprattutto da una dura esperienza carceraria: la firma di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, erede della tradizione liberale; la firma di Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente e fondatore con Gramsci e Togliatti del Partito comunista italiano; la firma di Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e già primo successore di don Luigi Sturzo alla segreteria del partito popolare. E l’unione di tali visioni rappresenta un carattere compromissorio che, lungi dall’essere una connotazione negativa, rappresenta anzitutto un elemento ineliminabile della nozione stessa di patto (con- promettere, cioè permettere insieme, impegnarsi su qualcosa) tra forze sociali e politiche diverse, come dato storicamente incontrovertibile. Parliamo di un punto di incontro tra diversi umanesimi: cattolico, liberale e socialista.

Quando la commissione per la Costituzione ha votato l’articolo 27, c’è stato un dibattito che oggi paradossalmente sarebbe impensabile. Un vero paradosso, visto che le personalità politiche della commissione erano appena reduci da dittatura, carcere, violenza e morte. Eppure la loro discussione non era sull’innalzamento della qualità delle pene. Basta leggere il resoconto stenografico della seduta del 25 gennaio 1947. C’è Umberto Nobile del Partito comunista, al quale sembra che parlare di “trattamenti crudeli e disumani” dia quasi il pretesto per usarli e ritiene perciò molto più rispondente ed ampia la formula: “Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana”. Spiega che nell’articolo proposto dal Comitato di redazione si dice che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ha creduto di dire in modo più chiaro ed esplicito: “Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società”.

Interviene però Mario Cevolotto del gruppo parlamentare “Democrazia del lavoro” che intende chiarire perché – a parte le formule che possono essere accettate o meno – in seno alla prima Sottocommissione non si è voluto risolvere la questione della finalità della pena. Spiega che la pena ha – secondo alcuni – un fine di intimidazione; secondo altri, un fine di prevenzione; per altri ancora, deve avere soltanto il fine della rieducazione del colpevole.

Dice che si è voluto evitare di accettare nella Costituzione una di queste teorie, trattandosi di materia di Codice penale. Ecco perché si è usata la parola “tendere”, perché si è voluto dire, in un senso altamente sociale e umano, che una delle finalità della pena in tutti i casi deve essere la rieducazione del condannato. Aldo Bozzi pensa che la formula proposta dagli onorevoli Umerto Nobile e Umberto Terracini non sia molto felice, perché il fatto stesso della pena è già qualche cosa che intacca questo patrimonio morale che è la dignità umana. Secondo lui il concetto che si deve esprimere riguarda, quasi direbbe, il trattamento fisico, cioè che la pena deve essere scontata con modalità tali che non siano disumane, crudeli.

In sostanza, leggendo il dibattito, non c’è discordia sulla necessità di tale articolo in Costituzione, ma sul fatto di renderlo più “umanitario” possibile. Oggi, invece, c’è chi vorrebbe modificarlo in senso peggiorativo.

da Il Dubbio