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Politica migratoria in Italia: diritti umani nell’abisso

Pubblichiamo il contributo di Cesare Antetomaso, rappresentante dei Giuristi Democratici italiani in occasione della quarantunesima sessione del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu di Ginevra, all’incontro organizzato dall’Associazione Internazionale dei Giuristi Democratici

Ginevra

Oggi, in Italia, le migrazioni vengono viste non già come fenomeno da governare, bensì come problema di ordine pubblico, intorno al quale si costruiscono carriere politiche di —momentaneo— successo, tese a identificare in questo problema strutturale la causa delle varie, più o meno grandi, crisi economico-sociali.

In questo quadro, si colloca la produzione normativa degli ultimi governi e, in special modo, quella dell’attuale con ben due decreti “Immigrazione e sicurezza”. Già la scelta del metodo è caratterizzante: con la decretazione d’urgenza, sempre più abusata, si espropria il Parlamento delle prerogative sue proprie in assenza sia di aggravamento dei problemi a cui si sostiene di voler dare soluzione, sia di argomenti che ne facciano intravvedere un’imminente riacutizzazione, per di più in presenza di norme con finalità tra loro estremamente eterogenee, quindi non in linea con i requisiti stabiliti dalla legge sulla decretazione d’urgenza (Legge n. 400 del 1988).

Così è in particolare per il Decreto Legge n. 53 del 2019, c.d. “Sicurezza-bis”, con il quale, tra l’altro, si operano:

1) il contrasto alla pratica della solidarietà;

2) la limitazione del diritto a manifestare;

3) la progressiva amministrativizzazione del diritto penale;

4) l’inasprimento delle pene previste per le violenze commesse in occasione di manifestazioni (per ora) sportive.

1) Il primo obiettivo si persegue innanzitutto con l’inserimento di un comma (1-ter) all’art. 11 del Testo Unico sull’immigrazione, ai sensi del quale si attribuisce al Ministro dell’Interno la facoltà di «limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale … per motivi di ordine e sicurezza pubblica», nonché nel caso di «violazioni delle leggi di immigrazione vigenti» come previste dalla Convenzione di Montego Bay del 1982. Di fatto, si legalizzano le direttive sui “porti chiusi” già emanate dall’attuale Ministro dell’Interno; direttive già duramente stigmatizzate da parte dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani (con lettera del 15 maggio 2019), in quanto incompatibili con gli obblighi derivanti dalle Convenzioni Unclos, Solas e Sar sul diritto internazionale del mare, oltreché con il principio del non-refoulement, praticamente vanificato laddove le attività di soccorso delle Ong (e non solo, si veda il caso della nave Diciotti della Guardia Costiera italiana) vengano interdette.

Ancora, con l’inserimento di un comma (6-bis) all’art. 12 del medesimo T.U. imm., ai sensi del quale il comandante, l’armatore ed il proprietario della nave che violino il «divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane» sono passibili di una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000,00 a 50.000,00 euro ciascuno, con possibilità di confisca della nave in caso di «reiterazione con l’utilizzo della medesima nave», con immediato sequestro amministrativo. Il tutto, peraltro, «salve le sanzioni penali quando il fatto costituisca reato»: con il che, si realizzerebbe un inammissibile bis in idem in ordine al trattamento sanzionatorio.

2) al secondo obiettivo si perviene tramite una progressiva limitazione del diritto a manifestare. In questo senso va interpretato l’innalzamento delle pene oltre i limiti già alti (e perciò in contrasto con i principi di offensività e proporzionalità) previsti dal vigente codice penale —d’impronta fascista— per i reati commessi contro gli appartenenti alle Forze dell’Ordine, oltreché per l’interruzione di pubblico servizio, per il danneggiamento e per la devastazione e saccheggio. Tutto ciò, in un contesto nel quale l’Italia ha solo da poco introdotto il reato di tortura, ma disattendendo gravemente il testo e vieppiù lo spirito della Convenzione di New York del 1984 (basti ricordare che il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale non concretizza il reato di tortura made in Italy) e soprattutto non è ancora previsto un codice identificativo per gli agenti di polizia, nonostante le plurime condanne in tal senso dello Stato italiano da parte della Corte Europea dei Diritti Umani.

Inoltre, inasprendo una legge già definita liberticida come la Legge Reale (n. 152 del 1975), con il pretesto di punire il travisamento (ossia il rendere difficoltoso il riconoscimento personale) durante le manifestazioni pubbliche, si sanziona l’utilizzo di uno strumento di resistenza passiva come il casco protettivo —notoriamente un semplice copricapo che non nasconde i lineamenti del viso— con l’arresto da due a tre anni e l’ammenda da 2.000,00 a 6.000,00 euro, oltre a punire l’accensione di fumogeni —la cui pericolosità è definita solo genericamente— con la reclusione da 1 a 4 anni.

Con ciò, una serie di divieti inizialmente volti a contrastare fenomeni circoscritti (come gli scontri fra ultras calcistici violenti e Forze dell’Ordine in occasione di manifestazioni sportive) vengono estesi a qualunque genere di manifestazione, alimentando così, nell’opinione pubblica, il timore per ogni pubblica riunione o addirittura semplice assembramento, additato di per sé solo come terreno fertile per qualsivoglia minaccia per la sicurezza pubblica e dunque tale da richiedere un trattamento normativo differenziato —e, va da sé, di netto sfavore.

3) Il terzo obiettivo viene perseguito con una ulteriore attribuzione di poteri sempre più penetranti in tema di limitazione della libertà personale ad autorità amministrative come il Questore (si veda l’art. 13), con sottrazione del destinatario alle garanzie del giusto processo.

4) All’ultimo degli obiettivi sopra elencati si perviene attraverso l’inasprimento delle pene previste per le violenze commesse in occasione di manifestazioni sportive (ultimo capo del D.L. 53/19). In realtà, come già avvenuto per il “Daspo”, lo stadio calcistico assurge a laboratorio nel quale sperimentare misure estendibili anche al di fuori del contesto loro proprio, anche incrementando il ricorso alle misure di prevenzione personali, già oggetto di censura da parte della Corte EDU con la nota sentenza Di Tommaso.

Fortunatamente, la prima applicazione giudiziale di tali norme ha già evidenziato la loro fallacia, dal punto di vista interno e internazionale. La recentissima ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari di Agrigento sul caso della nave della Ong Sea Watch “3” ha mirabilmente evidenziato come la novella sia contraria ai principi cardine dello stato di diritto, in primo luogo in quanto i provvedimenti del Ministro dell’Interno non possono prevalere sulla legge, né tantomeno sulla Costituzione della Repubblica o sui Trattati cui questa rinvia, per cui:

  1. a) sulla capitana dell’imbarcazione incombeva l’obbligo di salvataggio;
  2. b) correttamente non sono stati ritenuti porti sicuri né la Libia (per ovvii motivi), né la Tunisia (per una serie di motivi, tra cui l’impossibilità di richiedere l’asilo);
  3. c) il divieto ministeriale di ingresso non solo è inattuabile in quanto di rango normativamente inferiore (vi è connessa unicamente una sanzione amministrativa), ma soprattutto non può superare i vincoli internazionali (tra cui la Convenzione di Amburgo del 1979) al cui rispetto l’Italia è tenuta in forza dell’art. 117 della Costituzione, in quanto parametro interposto di costituzionalità;
  4. d) la condotta della capitana della nave è comunque scriminata dall’adempimento del dovere di salvataggio dei naufraghi: anzi, ove avesse puntato, si dice espressamente, a un porto più lontano di quello raggiunto di Lampedusa, sarebbe stata responsabile della morte o della malattia delle persone a bordo.

Nel momento in cui però si debbono ascoltare dichiarazioni di magistrati, i quali intenderebbero “riservarsi di verificare se quanto afferma l’Onu riguardo la Libia come porto sicuro corrisponda a verità”, queste continue spallate ai principi cardine del nostro ordinamento e in definitiva alla Costituzione, possono prefigurare uno scivolamento dallo stato di diritto verso uno stato di polizia. Vi chiediamo perciò di aiutarci a vigilare sul rispetto della piena attuazione dei diritti umani fondamentali in Italia, continuando a mantenere alta l’attenzione nei confronti del nostro Paese.

Cesare Antetomaso (Avvocato, membro dell’Esecutivo dell’Associazione italiana dei Giuristi Democratici)