Che si tratti dello sfruttamento operaio dei lavoratori immigrati o dell’asservimento nelle banlieues, il processo messo in campo è lo stesso : l’incorporazione della dominazione attraverso i corpi, in cui il poliziotto gioca d’ora in avanti il ruolo di caporeparto.
Gli ultimi fatti cruenti1 verificatisi sotto copertura del controllo di polizia vengono presentati dai commentatori mediatico-politici come atti individuali. Alla peggio, sarebbe sufficiente estirpare le mele marce dal cesto perché tutto rientri nell’ordine repubblicano. Le cosidette “sbavature” non sono scivoloni individuali : al contrario, l’umiliazione è un sistema di dominazione. La polizia rappresenta per i giovani della cité dei 3000 a Aulnay-sous-Bois quello che furono i capireparto dei loro genitori lavoratori nell’industria automobilistica d’Aulnay.
Le scelte industriali dell’epoca di assumere in massa una mano d’opera migrante senza possibilità di formazione né di promozione, condannarono questi operai a salari bassi e condizioni di lavoro penose. “Non ne potevamo più, gli operai lavoravano di più e perdevano il salario, si facevano insultare” racconta Christian Bonin nel film Haya2 (“in avanti” in arabo). Fino a 3000 operai, in un sito che contava allora 6000 impiegati, incrociarono le braccia. Questo sciopero resterà atipico : sciopero di OS (operai specializzati), sciopero di migranti, sciopero per la dignità prima che per ogni altra rivendicazione.
Gli anni ottanta, tra Ronald Reagan, Margaret Thatcher e François Mitterrand, segnarono la fine nei paesi occidentali di un certo tipo di capitalismo industriale, la messa in campo della disoccupazione di massa, l’avvento del capitalismo finanziario, la mercificazione dell’esistenza e il riciclaggio delle idee sessantottine nell’economia neoliberale. Le banlieues costiturono a quel punto dei luoghi di resistenza.
Tra il 1982 e il 1984, “gli scioperi portati avanti dagli operai migranti nel settore automobilistico della regione di Parigi, posero il problema del divenire di un salariato particolarmente dominato e sfruttato, in un’industria in costante ristrutturazione”.3
Le lotte sociali vertevano tanto sul lavoro che sulla casa, sulle leggi discriminatorie riguardo agli sfratti, sugli atti di razzismo. Gli scioperi erano l’occasione di liberare una voce messa a tacere. Al di là delle rivendicazioni sindacali, il tema della dignità era onnipresente nei discorsi degli OS e rinviava sia alla dignità in quanto salariati di fronte all’impresa, sia alla dignità in quanto migranti di fronte alla Francia. I quartieri popolari trovarono una certa autonomia in questa articolazione tra lotte professionali e lotte delle minoranze. Una di queste espressioni fu la “marcia per l’uguaglianza” nel 1983, che culminò con una sfilata di 100 000 persone a Parigi e l’impegno preso dal presidente della repubblica rispetto a certi diritti.
Il discredito era parte integrante dell’arsenale repressivo. I rapporti dei servizi sulle lotte nel contesto delle imprese venivano chiamati in causa per appoggiare la tesi messa in circolazione dalle più alte sfere dello Stato su di un “islam operaio sotto influenza esterna”. Il trattamento politico del conflitto in chiave religiosa inaugurava trentacinque anni fa il discorso islamofobo postcoloniale e la frattura nazionale/razziale che oggi s’impone nell’argomentazione dell’islamizzazione delle ex-banlieues operaie.
Nel 1983, nello stesso momento in cui il Fronte Nazionale immagazzinava i suoi primi successi elettorali, il primo ministro socialista Pierre Mauroy e il suo ministro del lavoro Jean Auroux svilupparono il tema degli “scioperanti infiltrati dall’integrismo” : “gli immigrati sono ospiti della Francia e in ragione di ciò hanno un doppio dovere : fare il gioco dell’impresa e quello della nazione”.4
Se l’impresa è scomparsa, il quartiere la rimpiazza in quanto luogo in cui domina l’ingiunzione ad essere docili. Il controllo che veniva operato nel rapporto al lavoro si estende da ora in avanti a tutti momenti della vita attraverso la militarizzazione dello spazio. Che si tratti dello sfruttamento operaio dei lavoratori immigrati o dell’asservimento nelle banlieues, il processo messo in campo è le stesso : l’incorporazione della dominazione attraverso i corpi in cui il poliziotto gioca d’ora in avanti il ruolo di caporeparto. La suddivisione del territorio da parte degli informatori, la gerarchizzazione parallela, gli obblighi di dimora immotivati, gli insulti razzisti che erano il pane quotidiano della “fabbrica del terrore” denunciata dagli operai dell’epoca, sono gli stessi meccanismi che operano ora nei “quartieri della paura”. É logico che le rivendicazioni risuonino oggi alla stessa maniera. I lavoratori immigrati chiedono il rispetto della loro dignità, la libertà di parlare, di impegnarsi nell’organizzazione delle proprie scelte, di essere riconosciuti nel proprio diritto a pensare e a praticare religioni differenti, di smettere di essere trattati come schiavi…
L’umiliazione resta il supporto privilegiato per cancellare il soggetto nella sua stessa qualità di essere umano. “Si tratta di una forma intensa di sofferenza psichica che devalorizza, disprezza e rimette in causa il diritto dell’individuo5
Ogni persona è costretta a integrare questa paura come un modello comportamentale di sottomissione invalicabile rispetto alla propria situazione personale. Dentro l’impresa come nel quartiere, l’umiliato deve capire il suo essere inadatto alle esigenze del sistema. Il sentimento di inutilità è la stessa base del totalitarismo economico, quella che Patrick Vasseur chiama “l’essere superfluo”, cioè un sistema in cui gli uomini sono superflui, atomizzati in una massa senza la possibilità di ricollegarsi ad una forma collettiva : un individuo senza qualità, senza originalità, senza singolarità, senza personalità, un individuo inferiore. A questa forma totalitaria corrisponde un’umiliazione radicale. La mancanza di rispetto, di considerazione, il rifiuto della riconoscenza vengono a ricordare questa condizione. La sottomissione dei gruppi passa sempre attraverso la dimensione individuale. Si isola per questo l’individuo, si cerca di toccarlo nell’intimo, là dove riposano i sentimenti più profondi di esistenza di sé e degli altri. Lo si riduce ad un corpo, ne si squalifica la vita attraverso il vissuto sensibile del dolore, della degradazione.
Resistere a questa dominazione significa analizzare l’umiliazione inanzitutto come una questione politica decisiva. A questa degradazione individuale corrisponde la deteriorazione costante in questi ultimi anni delle condizioni socio-economiche nei quartieri classificati come “prioritari”. Mentre la situazione dell’impiego sembra stabilizzarsi sul piano nazionale, l’aumento della disoccupazione, che è due o tre volte più alto nei quartieri (indipendentemente dal livello del diploma), non è una consequenza della crisi : è una chiara scelta politica. Più le banlieues popolari appaiono inutili allo sviluppo del paese dopo la destrutturazione del tessuto industriale, più il sistema repressivo si accentua, il controllo si opera attraverso il trasferimento della violenza dalla sfera della produzione alla sfera pubblica.
Questa dominazione basata su di una segregazione territoriale e una discriminazione etnico-sociale resta nonostante tutto impossibile da intendere nel dibattito pubblico. Quest’ultima è però diventata persino progressivamente “accettabile” quando si nasconde dietro un alibi ideologica. La critica di classe lascia il posto ad un approccio culturalista in cui il lavoratore immigrato diventa il musulmano e il giovane figlio dell’immigrazione la racaille naturalmente incline alla delinquenza. Si tratta qui delle tesi fumose sull’ “insicurezza culturale” (paura del multiculturalismo, del “grande rimpiazzo”), del tema della “riconquista delle terre senza legge”, della riformulazione di un racconto nazionale che esclude l’apporto dei migranti, della strumentalizzazione della laicità nella razializzazione dei rapporti sociali etc.
Chi ha lavorato sul campo ha potuto constatare il deterioramento progressivo nascosto dalla logica tecnicistica della “politica della città”, che finisce per soffocare ogni velleità di auto organizzazione del milieu associativo.
Distruggere le torri d’immobili e ristruttrare le facciate non ha mai permesso alle popolazioni di organizzarsi meglio in autonomia. Dal momento che i modi di strutturarsi legati precedentemente alle lotte sul lavoro sono scomparsi, alle rivolte, come nel 2005 dopo la morte di Zyed e Bouna a Clichy-Sous-Bois, non è ancora accordato lo statuto di lotte legittime e queste sono sistematicamente ricondotte allo stato di delinquenza perpetrata da “vandali” e da altre “reti mafiose”.
La perpetuazione di uno stato d’emergenza che toglie le briglie alla violenza poliziesca e il suo dirottamento nella repressione del movimento della primavera 2016 contro la Legge sul Lavoro hanno avuto come effetto inaspettato di facilitare un avvicinamento tra le differenti forme di lotta.
I giovani che hanno manifestato per la prima volta hanno scoperto “live” la tecnologia del potere militar-poliziesco da decenni in gioco nelle banlieues; allo stesso modo gli attori delle banlieues scoprono attraverso i social media le strategie d’organizzazione e di ribellione dei movimenti autonomi.
La convergenza delle lotte che ci si augurava a quel momento non si è verificata davvero, perché la lotta è rimasta accostata al modello di rapporto al lavoro e di militanza proprio a certe fasce socioprofessionali. I “Senza” si sono comunque ritrovati nei cortei di testa delle manifestazioni e nelle assemblee d’occupazione delle piazze, senza permettere davvero ai quartieri popolari di trovare le loro proprie forme di organizzazione. Il presidio dell’11 febbraio 2017 davanti al tribunale di Bobigny e in molte altre città in Francia in sostegno a Théo L. ha però costituito forse uno di questi punti di convergenza.
Le scintille della guerrilla urbana possono provocare ad ogni momento un incendio, l’emancipazione delle popolazioni dominate passa per la possibilità di assumere lo statuto di attori politici comme all’epoca delle lotte nell’industria automobilistica. Affermandosi come referente per l’insieme dei movimenti, la periferia diventa centrale, condizione necessaria a una trasformazione radicale dei modelli economici e politici. Le banlieues allora non sono più “il luoghi del bando” assegnati all’identitarismo, ma i centri di un’intelligenza sociale che condivide saperi, autoformazione reciproca, appropriazione dei luoghi e degli strumenti, emulazione e orgoglio collettivo.. La storia delle lotte mostra che altre traiettorie collettive sono sempre possibili.
Hugues Bazin (articolo apparso in originale sul blog di Mediapart, traduzione dal francese di Elisabetta Garieri) da InfoAut
Note:
1 Il 2 febbraio, nella cité dei 3000, à Aulnay-sous-Bois (nella provincia parigina della Seine-Saint-Denis), Théo L., 22 anni, viene gravemente ferito, stuprato da un manganello telescopico di un poliziotto. Il 29 ottobre 2015, anche Alexandre T. Si ritrova con l’ano perforato dal manganello di un poliziotto della municipalità di Drancy (ancora in Seine-Saint-Denis), che viene giudicato per violenze volontarie a mano armata. Il giovane ha perso il lavoro e resta traumatizzato. Il 19 luglio 2016, in seguito ad un controllo, Adama traoré, 24 anni, muore nella gendarmeria di Persan (nella provincia parigine dell’Oise) in condizioni che restano inspiegate dalle autorità.. Senza essere tanto drammatici, i controlli che finiscono male sono pane quotidiano. Tre punti di sutura al cuoio capelluto, un dente rotto e un ematoma al viso. É il bilancio medico del controllo di Hicham, nella notte tra il 4 e il 5 febbraio scorso a Clichy-la-Garenne (Hauts-de-Seine). É stata portata denuncia, etc.
2 « Haya », di Edouard Bobrowski e Claude Blanchet, Francia, 1982, 60 mn
3 Vincent Gay, « Des grèves de la dignité aux luttes contre les licenciements : les travailleurs immigrés de Citroën et Talbot, 1982-1984 », www.contretemps.eu
4Frantz Durupt, « L’usine PSA d’Aulnay sous influence islamiste ? Un argument qui remonte à 1983 », Libération del 3 gennaio 2017
5 Claudine Haroche , « Le caractère menaçant de l’humiliation », Le Journal des psychologues, 6/2007 (n° 249), p. 39-44.