Una riflessione di Vincenzo Scalia (University of Winchester) sulla recente irruzione in una biblioteca dell’Università di Bologna, in Via Zamboni 36, della polizia in tenuta antisommossa.
L’irruzione della polizia presso la biblioteca universitaria di via Zamboni 36 a Bologna del 9 febbraio scorso, e’ degna di riflessioni accurate almeno sotto tre aspetti; il primo riguarda la libertà e la circolazione dei saperi. Il secondo ambito concerne la questione degli spazi pubblici; il terzo punto, invece, investe la questione delle nuove strategie di controllo del dissenso.
L’università dovrebbe essere il luogo pubblico per eccellenza della produzione e della fruizione dei saperi, dove persone con diversi interessi e formazione si incontrano, si scambiano idee, opinioni e ipotesi, e le elaborano, fuori dal loro ristretto ambito scientifico. Nella concezione che prevale presso l’ateneo felsineo, invece, la formazione superiore deve preoccuparsi di sfornare persone in possesso di conoscenze specifiche, limitate al segmento del mercato del lavoro (possibilmente precario) dove saranno inserite. I luoghi di studio quindi vanno asetticizzati, sterilizzati, prevenuti da una contaminazione che potrebbe portare ad una consapevolezza relativamente alla crescente mercificazione dei saperi. A questo servono i tornelli, introdotti a Bologna dalla fine degli anni novanta in poi; ogni dipartimento ha la sua biblioteca, a cui accedono solo coloro che dispongono di una tessera che attesta la loro appartenenza ai corsi di laurea del dipartimento stesso. Gli altri stanno fuori, in quanto portatori di saperi alieni, o disturbatori di equilibri. Questa concezione, oltre a creare un vero e proprio apartheid dei saperi, fa a pezzi anche l’idea dell’università come bene pubblico. Teoricamente, dentro gli atenei, potrebbero e dovrebbero entrare anche i privati cittadini a fruire del sapere che si produce e che circola lì dentro. Le tasse servono solo a sostenere esami e ad essere ammessi ad un percorso il cui culmine è la laurea. Gli studenti che protestavano contro i tornelli stavano proprio affermando questi principi. Il rettorato e la polizia, da parte loro, gli hanno contrapposto la logica del supermercato. Come si mette la moneta di un euro nei carrelli, così in biblioteca ci vuole il tesserino magnetico.
Quanto agli spazi pubblici, ormai lo scivolamento verso la privatizzazione dei luoghi, già spiegata da Mike Davis venti anni fa nel caso di Los Angeles, sembra essere un fenomeno inesorabile. Si entra in un luogo solo se si hanno degli scopi funzionali, mediati ovviamente dalla transazione monetaria. Tutti gli altri devono starne fuori. Eppure, non molto tempo fa, le università erano degli spazi aperti, dove alcuni professori coraggiosi organizzavano corsi serali per i lavoratori, e dove affluiva anche gente che proveniva dai quartieri. Quella che sembra prevalere, come abbiamo già spiegato sopra, è quella dell’università come (super) mercato. A maggior ragione in una città come Bologna, dove la popolazione studentesca fuori sede raggiunge le 50.000 unita’, e forma una città parallela rispetto ai 380.000 residenti ufficiali.
Per i fuori sede, spesso, i luoghi universitari rappresentano canali aggregativi alternativi, a partire dai quali si sono prodotte esperienze culturali e politiche significative. Il 1977 non e’ stato solo il movimento politico, ma anche Andrea Pazienza, il punk, il cinema off. Respingendo gli studenti nelle case affittate in nero, restringendone la possibilità di venire a contatto, la città si perde un’occasione di crescita culturale, ma non soltanto; perde anche la possibilità di trasformare Bologna in un laboratorio di culture alternative, di farne una piccola Amsterdam, per dire. Questa tendenza è in atto dalla metà degli anni novanta, quando le amministrazioni allora di sinistra, ansiosi di trasformare Bologna nel laboratorio politico del nascituro Ulivo, sgomberarono o marginalizzarono le esperienze alternative.
Infine, il cambiamento di strategia rispetto al dissenso è piuttosto palese. Una volta si dava spazio alla controparte, se ne ascoltavano le ragioni, si cercavano ambiti di mediazione, a volte si giungeva pure a una soluzione soddisfacente. Fu all’interno di questo contesto che il 36 di via Zamboni rimase occupato per 5 anni. Corte dei miracoli secondo la vox populi, ma, in realtà fucina politica e culturale da cui uscirono, per dire, i Wu Ming, criminologi critici, sociologi, giornalisti e cosi’ via. Oggi non ci sarebbe la possibilità, perché il concetto di tolleranza zero e’ straripato, sino a sommergere la dialettica politica. Chi si oppone ai progetti di bonifica leopoldesca va stroncato sul nascere, anche con l’uso della forza. D’altronde le forze di polizia in questi anni si sono distinte per l’uso costante di maniere energiche contro chi andava a contestare l’adesso ex rampante presidente del consiglio. Ma non ci aspettavamo che arrivassero ad irrompere dentro le universita’, con modalita’ che ci ricordano quelle di Citta’ del Messico del 1968 e del Sudamerica negli anni 70.
Il 36 negli anni novanta aveva fatto suo lo slogan di Mao: una scintilla può incendiare la prateria. Oggi si punta a spegnere preventivamente la scintilla. Fino a quando…?
Vincenzo Scalia
Riferimenti bibliografici
Davis M (2008) Città di quarzo. Indagando sul futuro di Los Angeles. Manifestolibri
fonte: Scalia V. (2017), “Poliziotti, scintille e supermercati”, in Studi sulla Questione Criminale Online, disponibile al https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2017/02/15/poliziotti-scint…ty-of-winchester/