Menu

Il populismo penale nell’età dei populismi politici

La questione penale è sempre più centrale nei nostri sistemi politici. Non si tratta di un fenomeno nuovo. Da molti anni l’uso demagogico e congiunturale del diritto penale, diretto a riflettere e ad ali­menta­re la paura quale fonte di consenso elettorale tramite politiche e misure illiberali tanto inefficaci alla prevenzione della criminalità quanto promotrici di un sistema penale disuguale e pesantemente lesivo dei diritti fondamentali – in breve il populismo penale – forma un tratto caratteristico delle nostre politiche securitarie. In questi ultimi mesi, tuttavia, tutti i tradizionali aspetti del populismo penale si sono fortemente accentuati perché si sono rivelati perfettamente funzionali al populismo politico oggi al governo del Paese. Per tre ragioni, tutte legate al nesso tra populismo penale e populismo politico e al connaturato antigarantismo di qualunque populismo.

La prima ragione è il consenso di massa ottenuto dalle politiche securitarie. L’Italia è uno dei Paesi più sicuri del mondo. In questi ultimi 20 anni si è prodotta una riduzione costante del numero dei delitti: 397 omicidi nel 2017 (di cui ben 120 femminicidi) rispetto alle molte migliaia degli anni passati: oltre 4000 alla fine dell’Ottocento, più di 3800 negli anni Venti e quasi 2000 negli anni Novanta del secolo scorso. Siamo anche in presenza di una riduzione delle violenze sessuali e perfino dei furti, benché si sia notevolmente ridotta la cifra nera delle une e degli altri. E tuttavia è aumentata l’insicurezza a causa della distanza crescente tra percezione e realtà. In passato la cronaca nera occupava le ultime pagine dei giornali. Oggi i telegiornali si aprono con l’ultimo omicidio o l’ultimo stupro. La percezione dell’insicurezza è insomma interamente una costruzione sociale, prodotta da quelle fabbriche della paura nelle quali si sono trasformati i media e in particolare la televisione. Se infatti tutti gli omicidi e tutti gli stupri vengono raccontati in televisione, se su di essi si svolgono dibattiti e inchieste giornalistiche, se poi i relativi processi vengono seguiti in tutte le loro fasi, si crea la sensazione che viviamo nella jungla. È precisamente questa paura e la conseguente richiesta di punizione che il populismo intende interpretare e soddisfare quale facile fonte di consenso.

La seconda ragione è il tendenziale colpevolismo dell’opinione pubblica. Le garanzie non fanno parte della cultura di massa e neppure del senso comune. Gli imputati, secondo l’opinione corrente, non si presumono innocenti, ma colpevoli. Il garantismo non fa parte del senso comune, che ha bisogno, purtroppo, di avventarsi immediatamente su capri espiatori. In breve, esso non è popolare e questo basta al populismo per rifiutarlo come un lusso da anime belle. Ci troviamo di fronte a un paradosso. Il garantismo non è solo un sistema di limiti e vincoli al potere punitivo, sia legislativo che giudiziario, a garanzia delle libertà delle persone da punizioni eccessive o arbitrarie. Esso è ancor prima un sistema di regole razionali che garantiscono, nella massima misura, l’accertamento plausibile della “verità processuale” e perciò la punizione dei veri colpevoli. Ma è precisamente questa razionalità che non viene accettata né capita da gran parte dell’opinione pubblica, che aspira al contrario alla giustizia sommaria, tendenzialmente al linciaggio dei sospetti. E anche questo è sufficiente al populismo per offrire rappresentanza a tale concezione e alla conseguente domanda di vendetta.

La terza ragione della funzionalità del populismo penale al populismo politico è la convergenza tra la tendenza di questo a definirsi sulla base dell’identificazione di nemici e il paradigma del diritto penale del nemico. Tutti i populismi hanno bisogno di legittimarsi attraverso un nemico o meglio attraverso più nemici: nemici interni che complottano e nemici esterni come la Francia o l’Unione Europea o l’ONU; nemici in alto, rappresentati dalle élites e nemici in basso rappresentati dai migranti e dai soggetti devianti; nemici identificati con i precedenti governi e nemici identificati con le opposizioni. Aggressioni alle élites, razzismo, paura per i crimini di strada, vittimismo permanente sono gli ingredienti di questa logica del nemico. È chiaro che i devianti, e prima ancora gli indagati e gli imputati si rivelano come i nemici ideali. L’abbiamo visto con la spettacolarizzazione dell’arresto di Cesare Battisti, messo in scena come una gogna. Il populismo non conosce cittadini ma amici e nemici. Concepisce la giustizia penale come una guerra contro il male e l’insicurezza come emergenza quotidiana che richiede di essere rappresentata, drammatizzata e spettacolarizzata. Alimenta ed interpreta il desiderio di vendetta su capri espiatori. Configura l’irrogazione di pene come nuova e principale domanda sociale.

Ma l’uso populistico del penale non si limita alla sua accentuazione demagogica quale strumento per ottenere consenso. Non si tratta soltanto di una crescita quantitativa, ma anche di una sua mutazione qualitativa. Questa mutazione è legata al suo terreno privilegiato, oggi costituito dalle politiche contro i migranti che stanno mettendo in crisi tutti i principi della nostra democrazia. Certamente questo Governo e, in particolare, il ministro dell’interno Salvini non hanno affatto inaugurato, ma hanno solo proseguito le politiche e le pratiche contro gli immigrati del precedente ministro Minniti e quelle degli altri governi europei. Ci sono però quattro gravissime differenze qualitative nell’operato di questo Governo rispetto a quello dei Governi passati, tutte connesse all’approccio populistico alla questione dell’immigrazione e tutte corrispondenti ad altrettante perversioni del tradizionale populismo penale.

La prima differenza è il carattere criminogeno assunto oggi in Italia dalle leggi e dalle politiche governative in tema di sicurezza. Mi limito a ricordare due misure il cui effetto sarà quello di accrescere la devianza, la marginalità sociale e l’insicurezza. Anzitutto il decreto cosiddetto “sicurezza” voluto dal ministro Salvini, che oltre alle solite misure punitive ha ridotto tutte le forme di integrazione e soppresso di fatto il permesso di soggiorno per motivi umanitari: ne sta seguendo l’espulsione dal sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) e dai centri di accoglienza straordinaria (CAS) di molte decine di migliaia di migranti, gettati sulla strada come irregolari e destinati ad alimentare l’emarginazione sociale e la delinquenza a beneficio ulteriore della politica della paura. E, poi,la proposta di legge sull’estensione dei presupposti della legittima difesa. Nel testo approvato al Senato viene di fatto soppresso il requisito della proporzionalità tra difesa e offesa, semplicemente con l’aggiunta che tale requisito ricorre “sempre”, senza possibile valutazione da parte del giudice e quindi anche nel caso di chi in casa propria spari per difendere i propri beni. Ne risulterà l’aumento degli omicidi mediante la ragion fattasi. Basti pensare al numero attuale degli omicidi in Italia, dove nessuno va in giro armato, e al loro numero in America, dove tutti possono comprare armi: meno di 400 omicidi in un anno in Italia, come ho già ricordato, 66.000 in Brasile, circa 30.000 negli Stati Uniti e in Messico dove tutti si armano per paura.

La seconda differenza con le politiche del passato è ancor più inquietante. Consiste nel fatto che il consenso popolare viene perseguito, dagli odierni populismi, non soltanto nei confronti di misure punitive, ma anche nei confronti di politiche e di pratiche apertamente criminali. Le misure contro l’ingresso dei migranti in Italia adottate da questo Governo su iniziativa del ministro Salvini – la chiusura dei porti, il trattenimento in ostaggio dei migranti a bordo delle navi, la preordinata omissione di soccorso – costituiscono dei veri e propri reati. Qui il populismo penale consiste nella ricerca del consenso non già facendo leva sulla paura per la criminalità di strada e inasprendo le pene, bensì ostentando politiche esse stesse illecite, consistenti in violazioni massicce dei diritti umani. Sono queste gigantesche omissioni di soccorso e, soprattutto, la loro aperta rivendicazione e ostentazione i tratti principali per i quali questo governo cosiddetto “del cambiamento” passerà tristemente alla storia e che sono in grado di oscurare, per la loro drammatica immoralità e illegittimità, tutte le altre politiche governative. Non si tratta soltanto di politiche che alimentano il veleno razzista dell’intolleranza e del disprezzo per i diversi quale veicolo di facile consenso. Perseguire il consenso dell’elettorato tramite l’esibizione dell’illegalità equivale a deprimere la moralità corrente e ad alterare, nel senso comune, le basi del nostro stato di diritto: non più la soggezione alla legge e alla Costituzione, ma il consenso elettorale quale fonte di legittimazione di qualunque arbitrio, persino se delittuoso.

Vengo così alla terza differenza delle politiche di questo governo contro i migranti rispetto a quelle messe in atto dai Minniti e dai Macron e che assimila Salvini al presidente americano Trump. Essa consiste nel fatto che la violazione dei diritti umani, mentre era occultata da Minniti, viene ora sbandierata come fonte di consenso. Di qui il veleno distruttivo immesso nella società italiana. Il ministro Salvini non si limita a interpretare la xenofobia, ma la alimenta e la amplifica, producendo due effetti distruttivi sui presupposti della democrazia. Il primo effetto è l’abbassamento dello spirito pubblico e del senso morale nella cultura di massa. Quando l’indifferenza per le sofferenze e per i morti, la disumanità e l’immoralità di formule come “prima gli italiani” o “la pacchia è finita” a sostegno dell’omissione di soccorso sono praticate, esibite e ostentate dalle istituzioni, esse non soltanto sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano. Non capiremmo, altrimenti, il consenso di massa di cui godettero il nazismo e il fascismo. Queste politiche crudeli stanno avvelenando e incattivendo la società, in Italia e in Europa. Stanno seminando la paura e l’odio per i diversi. Stanno logorando i legami sociali. Stanno screditando, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Stanno fascistizzando il senso comune. Stanno svalutando i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia.

C’è poi un altro effetto, non meno grave, e una quarta differenza di queste politiche ostentatamente disumane rispetto al passato. Consiste nel mutamento da esse prodotto delle soggettività politiche e sociali: non più le vecchie soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e su lotte comuni per comuni diritti, ma nuove soggettività politiche di tipo identitario – italiani contro migranti, prima gli italiani, come in Usa prima gli americani, noi contro gli stranieri, le identità nazionali l’una contro l’altra – basate sull’identificazione delle identità diverse come nemiche e sul capovolgimento delle lotte sociali: non più di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso, dei poveri contro i poverissimi e soprattutto dei cittadini contro i migranti, trasformati in nemici contro cui scaricare la rabbia e la disperazione generate dalla crescita delle disuguaglianze e della povertà. Le politiche contro i migranti si coniugano così con le politiche antisociali che in questi anni hanno accresciuto la disoccupazione e il precariato nei rapporti di lavoro, provocando la disgregazione delle vecchie forme di soggettività politica collettiva basate sull’uguaglianza nei diritti e sulla solidarietà tra uguali. Espressioni come “movimento operaio” e “classe operaia”, “coscienza di classe” e “solidarietà di classe”, che per oltre un secolo sono state centrali nel lessico della sinistra, suppongono infatti l’uguaglianza dei lavoratori nelle condizioni di vita e nella titolarità dei diritti e la stabilità dei rapporti di lavoro e delle relazioni tra lavoratori.

Oggi, a causa dei rapporti precari e mutevoli, perfino nelle grandi fabbriche i lavoratori neppure si conoscono tra loro. Quelle espressioni sono quindi andate fuori uso essendo venuta meno, con la precarietà e la moltiplicazione dei tipi di rapporto di lavoro, l’uguaglianza nei diritti, sicché i lavoratori, anziché solidarizzare in lotte comuni, sono costretti a entrare in competizione tra loro.

Il testo è uno stralcio dell’articolo in corso di pubblicazione su Questione giustizia

da VolereLaLuna