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Il potere e la nuda vita carceraria

Contributo di Vincenzo Scalia sulle cause delle rivolte nelle carceri. Associazione Yairaiha Onlus

L’improvviso e drammatico esplodere della crisi sanitaria del coronavirus ha investito, e non poteva essere diversamente, anche le carceri italiane, che hanno pagato un doloroso pedaggio di 14 morti al panico morale verificatosi in seguito all’emergenza e alle misure varate dal governo in materie di carcere. Il problema, come al solito, è quello della repressione e del contenimento, di cui i detenuti, per la loro condizione, sono i primi a subire le conseguenze. L’emergenza sanitaria, quindi, sortisce l’effetto non solo di rafforzare il neo-liberismo, ma anche lo stato d’eccezione, a spese dei più deboli. Da parte nostra, pensiamo che i detenuti abbiano le loro ragioni, e che bisognerebbe lavorare per trovare risposte altre dalla repressione. Ma che, d’altra parte, i rapporti di forza esistenti a livello politico e sociale, fanno sì che l’esito non possa essere che quello attuale. Proveremo a spiegare questo assunto in tre passaggi.

In primo luogo, il coronavirus sta smantellando i fondamenti della convivenza civile, a partire dalla routine. In altre parole, tutto il cumulo di abitudini, aspettative, richieste che forma la trama della vita quotidiana, è sospeso. Non si può uscire, incontrare gli altri, rimanere fuori per scelta propria. In altre, parole, libertà di circolazione, una delle prerogative individuali sancite dalla Costituzione, su cui alcuni costituzionalisti hanno già trovato da ridire per le conseguenze lesive dai diritti fondamentali. Se il vulnus dei diritti è già profondo per i cittadini liberi, lo è ancora di più per i detenuti. La routine carceraria, infatti, consiste di poche valvole di sfogo a fronte del regime detentivo prolungato nel tempo: le ore d’aria, i colloqui con gli avvocati, le visite dei familiari, oltre alle attività di trattamento, rappresentano le valvole di sfogo attraverso le quali la condizione detentiva riesce ad essere sopportabile, o, quantomeno, ad essere sopportata dai detenuti. Un altro elemento della routine carceraria, è rappresentato dalla possibilità di fruire dei permessi per andare a trovare i propri familiari. Una misura di prospettiva, che consente ai detenuti non solo di ricostruire la propria rete relazionale, ma anche di progettare un reintegro in società alla fine della pena. E’ evidente che la sospensione di queste misure in conseguenza del coronavirus contribuisce a rendere ancora più invivibile la vita all’interno dei penitenziari, e a porre le condizione per un malessere che non può non sfociare in una ribellione. A poco servono argomentazioni ciniche che vedrebbero i detenuti più preparati ad affrontare l’isolamento rispetto alla popolazione libera, perché proprio chi vive in una situazione di spazi vitali ridotti al minimo soffre maggiormente delle ulteriori restrizioni, che si connotano come un vero e proprio colpo di grazia agli spiragli di umanità che talvolta si aprono all’interno di una condizione di sofferenza come quella detentiva.

In secondo luogo, questo discorso vale anche per le condizioni sanitarie. Da anni si continua a rilevare come il carcere sia un vero e proprio luogo di sofferenza fisica. Spazi ristretti e insalubri ospitano una popolazione carceraria in eccesso rispetto ai parametri minimi di vivibilità. A peggiorare la situazione, si aggiunge una sovra-rappresentazione di gravi patologie come l’AIDS, la TBC, l’epatite, la tossicodipendenza tra i detenuti. In questo contesto, al momento in cui un’infezione da coronavirus facesse capolino in carcere, il numero di decessi sarebbe di proporzioni esponenziali, finendo per degenerare in una vera e propria strage di detenuti. Buonsenso vorrebbe che, per questi motivi, si varassero immediatamente dei provvedimenti deflattivi: immediata scarcerazione dei detenuti di età superiore ai 65 anni, di quelli con un residuo di pena inferiore a 3 anni, di quelli affetti da patologie gravi. Ancora meglio, sarebbe il momento di varare un’amnistia, che finalmente la faccia finita con l’ipertrofia penitenziaria dispiegata in questi anni e ponga le condizioni per una nuova politica penale incentrata sulle garanzie e sui diritti dei detenuti. Magari all’amnistia si potrebbe accompagnare una nuova stagione di politiche pubbliche a partire dall’emergenza coronavirus, che si concentri sugli investimenti nella sanità, sulla tassazione dei patrimoni, sulla requisizione della sanità privata e degli alloggi sfitti per far fronte all’emergenza ospedaliera. E magari riduca il panico morale.

Non assisteremo a niente di tutto questo. Il potere si nutre della paura, del bisogno, della disuguaglianza. Peggio ancora, il potere ha bisogno di costruirsi un’aura di sacralità, che lo rende al di sopra del bene del male e lo legittimi presso il pubblico come la fonte suprema della moralità e della pratica. Per questo i detenuti saranno le prime vittime del coronavirus. Per questo 14 morti passano inosservati. L’homo sacer, ci insegna Giorgio Agamben, rappresenta la soglia di legittimazione del potere. Senza un capro espiatorio da sacrificare, non esiste  un potere da temere e da ossequiare. Per questo la vita va depotenziata, devitalizzata, tolta. Perché senza questo passaggio, un’opinione pubblica da anni bramosa di maniere forti, stenterebbe a credere al governo. In particolare a un esecutivo sorto da un’alchimia di palazzo, che stava disperatamente cercando la propria occasione.

In Italia, in questo momento, di homini (e feminae) sacri, ce ne sono 60.000. Da rinchiudere, da reprimere, da uccidere. Sennò, l’opinione pubblica, rifiuterebbe di credere alle buone intenzioni del governo e alle comparsate televisive. E non canterebbe sui balconi. Ma che importa. La “sinistra” è al governo, Salvini e Meloni sono all’opposizione. Fino a quando…?

Vincenzo Scalia – docente University of Winchester